Quel treno per il Sud. Viaggio nei ricordi di un’Italia che saliva e scendeva sul Milano-Crotone

Pubblicato il 12 luglio 2025 alle ore 23:24

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’era una volta un treno. Anzi, più di uno. Per chi come me è cresciuto negli anni ’70 e ’80, il treno non era solo un mezzo di trasporto: era una parte integrante delle vacanze, un rito di passaggio, un lungo nastro che collegava il Nord al Sud, la nebbia di Bergamo al sole della Basilicata. Il nostro viaggio cominciava il 1° di agosto, ogni anno, prendendo il treno regionale da Bergamo fino a Milano Centrale. Da lì salivamo sul leggendario Milano-Crotone, il treno notturno che collegava il Nord al profondo Sud, attraversando l’Italia intera. Il nostro capolinea era Taranto, dove scendevamo. Quel treno, però, proseguiva fino a Crotone, portando con sé un’intera umanità in movimento. Il ritorno era lo stesso rituale, ma all’inverso: il 31 agosto, o a volte il 30, prendevamo da Taranto il Crotone-Milano, lo stesso treno che partiva da Crotone e che noi intercettavamo più avanti. Una volta arrivati a Milano, prendevamo di nuovo il regionale per tornare a Bergamo. Ricordo che nel 1980, quando ci fu la strage alla stazione di Bologna, il nostro treno passò proprio lì il giorno prima. Fu una fortuna inconsapevole: quella stazione era una tappa fissa del nostro viaggio e solo per poco non ci toccò da vicino quella tragedia. Quel treno era una promessa: si partiva la sera tardi da Milano e si arrivava… quando si arrivava. A volte era il giorno dopo, a volte sembrava il secolo dopo. Ma per noi bambini era sempre una festa. Mio padre prenotava le cuccette, quelle con sei letti pieghevoli in uno scompartimento angusto ma affascinante, dove si dormiva con lo sballottamento del treno e il rumore delle rotaie come sottofondo. Non erano cuccette di lusso, ma erano le nostre. Una sicurezza per la famiglia e una meraviglia per noi bambini. Io, da bambino, chiedevo sempre di dormire nella cuccetta in alto: mi divertiva, mi faceva sentire più avventuroso, come se stessi dormendo in una tana segreta tutta mia. All’andata, sul treno c’erano uomini silenziosi con le valigie, famiglie con bambini assonnati, gente che tornava giù “giusto per pochi giorni”. Non solo io, ma anche gli altri passeggeri vivevano due emozioni opposte: all’andata, tutti festosi, chiassosi, con il sorriso sulle labbra e la speranza nel cuore, perché si tornava giù, nella terra natia, per riabbracciare i parenti, per sentire l’odore del mare, dei fichi, della campagna. Al ritorno invece, volti lunghi, occhi bassi, cuori appesantiti. Era normale, un po’ come succede sempre alla fine delle vacanze. Ma lì, su quel treno, era qualcosa di più: era la malinconia di chi lasciava la propria terra, sapendo che l’avrebbe rivista solo l’anno dopo. Era un arrivederci al Sud, ogni volta un po’ più doloroso. Ma al ritorno, da Crotone a Milano, il treno si trasformava in un mercato ambulante. Cassette di frutta, latte d’olio, fiaschi di vino, formaggi avvolti nella carta, cartoni legati con lo spago che trasudavano liquidi misteriosi. E sì, una volta c'erano pure due conigli vivi, chiusi in una gabbia e sistemati nel corridoio, in bilico tra l’incredulità e la rassegnazione dei passeggeri. I corridoi erano impraticabili, soprattutto quando si tentava di raggiungere il bagno, che sembrava uscito da un film di guerra: piccolo, sporco, rumoroso, con la scritta "Acqua non potabile" scolpita nella memoria. Eppure era parte del viaggio. Ricordo quegli sgabelli a scomparsa fissati nei corridoi, dove si poteva sostare per qualche ora se non si aveva il posto. Molti viaggiavano senza prenotazione, per risparmiare. E se trovavi uno di quei sedili pieghevoli, era come vincere un terno al lotto. Non c’era l’aria condizionata. Si viaggiava con il finestrino abbassato, con il vento che portava polvere, voci, odori. Si sudava, ma nessuno si lamentava. Si beveva da termos di casa, si condivideva la merenda. E poi c’era sempre l’abusivo delle bibite ghiacciate, che saliva in qualche stazione intermedia vendendo lattine di Coca-Cola o aranciate, rigorosamente fuori frigo ma “fredde”. E la vera gioia? La fermata a Gioia del Colle  con le mozzarelle vendute al volo dai finestrini. Mia madre non sbagliava mai: “Quella la prendi solo qui, a Bergamo non è la stessa cosa”. E aveva ragione. Gustavamo quelle mozzarelle freschissime con le mani sporche di viaggio e il cuore colmo di estate. Quella non era solo un’Italia che si muoveva, era un’Italia che resisteva. Quella dei meridionali al Nord, dei legami familiari mai spezzati, del “vado, ma torno”, dell’identità che si portava dietro come il pane fatto in casa. Quel treno rappresentava tutto questo: il lavoro, la nostalgia, la speranza, il ritorno. Un'Italia sana, autentica, dove il viaggio era lungo ma mai sprecato. Oggi, quei vecchi scompartimenti a sei posti sono quasi spariti. Le porte scorrevoli, i portabagagli metallici, le luci al neon, i sedili in finta pelle: tutto fa parte di un’epoca archiviata, ma viva nella memoria. Eppure, ogni volta che ne vedo uno – come nella foto che ho pubblicato in cima a questo articolo – il cuore mi torna a quei giorni, a quei treni, a quelle estati. E per un attimo, mi sembra di sentire ancora il profumo della mozzarella appena comprata dal finestrino.