
di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono artisti che scrivono canzoni. Poi ci sono quelli che scrivono epoche. Franco Battiato appartiene alla seconda categoria: è stato molto più di un cantautore. È stato un alchimista sonoro, un filosofo della melodia, un instancabile cercatore di senso nel caos del mondo. Nel panorama musicale italiano, pochi hanno saputo coltivare come lui un dialogo autentico tra musica e cultura alta, tra spiritualità e quotidianità, tra Oriente e Occidente. Non si è mai accontentato dell’effimero o del consenso immediato. Ha scelto la via più difficile: trasmettere conoscenza. Ogni testo di Battiato è un campo di ricerca, un frammento di sapere che si offre a chi ha voglia di ascoltare davvero. Le sue canzoni non sono mai state solo intrattenimento: erano (e restano) lezioni di filosofia, storia, religione comparata. "Centro di gravità permanente", "Prospettiva Nevski", "E ti vengo a cercare", "Povera patria" ("Schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame, che non sa cos'è il pudore, si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene"): ciascuna è una finestra aperta sul mondo interiore, sul senso e l'etica del vivere, sull’evoluzione dell’essere. Battiato non semplificava: raffinava. Non abbassava il livello per essere capito, ma innalzava l’ascoltatore per farsi seguire. Era come un maestro zen che parlava in codice, lasciando che ognuno trovasse la propria chiave interpretativa. L’approccio compositivo di Battiato è stato sempre multidisciplinare. Fondendo musica elettronica, pop, classica, etnica, ha costruito un linguaggio ibrido che anticipava la contemporaneità. Ma il vero punto di forza era la capacità di intessere cultura nei suoni, di far convivere Gurdjieff e Bach, i Veda e la fisica quantistica, Eliot e Krishnamurti. Ogni brano era una tappa di un viaggio interiore, spesso mistico, sempre profondamente umano. In un’epoca in cui il mercato imponeva leggerezza e ripetitività, lui proponeva contenuti, visioni, profondità. Sfidava il conformismo della discografia portando la filosofia dentro i dischi, senza mai perdere bellezza. Oggi, a distanza di anni dalla sua scomparsa, ci rendiamo conto che Battiato non ha solo lasciato delle canzoni. Ha lasciato un metodo, un approccio alla musica come arte totale, come strumento di trasmissione culturale. Ha dimostrato che si può fare divulgazione attraverso una strofa, che si può tramandare il sapere antico con un arrangiamento elettronico, che si può fare educazione spirituale parlando d’amore e solitudine. Il suo sapere era immenso, ma mai ostentato. Preferiva la sottigliezza all’enfasi, il simbolo alla spiegazione, la suggestione alla morale. Era un maestro dell’invisibile, un custode di significati da scoprire con pazienza. In fondo, tutta la sua opera ruota intorno a quel “sintomatico mistero” che sfugge alla comprensione ordinaria, ma chiama chi cerca davvero. I ricordi legati a Franco Battiato sono vivi in molti di noi. Ricordo da bambino l’LP intitolato "La voce del padrone", che conteneva brani iconici come "Bandiera Bianca", "Cuccurucucù" e "Gli uccelli". Ricordo anche quei suoni, come il cinguettio degli uccelli, che aprivano le tracce e creavano un’atmosfera sospesa, poetica, quasi metafisica. Indimenticabile anche quel momento in cui Battiato fu ospite di Mara Venier a Domenica In per presentare il brano "Strani Giorni". Quando la conduttrice gli chiese con una certa perplessità: «Ma che significa Strani Giorni?», lui rispose, secco e lapidario: «Basta affacciarsi». Un esempio perfetto della sua intelligenza ironica, della sua capacità di leggere il mondo senza bisogno di spiegazioni lunghe. Con una sola frase sapeva rovesciare la banalità e restituire complessità. Emblematico, ad esempio, è quel passaggio in cui canta: «lo scitaismo tantrico di stile dionisiaco, la lotta pornografica dei Greci e dei Latini», una frase che contiene interi secoli di filosofia e antropologia in pochi versi. Solo Battiato poteva sintetizzare così, senza retorica, le tensioni profonde della cultura occidentale e orientale. Ma la cosa straordinaria era la forza dei testi: parole scelte con rigore, intrise di storia, di simboli, di ricerca. Non era solo musica: era cultura in movimento. E questo è possibile perché Battiato era siciliano. La Sicilia non è solo una regione: è una sintesi vivente di civiltà. È stata greca, romana, bizantina, araba (saracena), normanna, sveva, spagnola, borbonica. Una stratificazione impressionante che ha lasciato tracce ovunque: nella lingua, nella cucina, nell’architettura, nella spiritualità. Ecco perché Battiato poteva parlare di Gurdjieff e dei Veda, dei mistici sufi e della fisica quantistica, senza risultare mai fuori luogo. La sua musica è figlia di quella terra meticcia, dove tutto convive e si rielabora. Solo un siciliano, attraversato da secoli di storia, poteva incarnare una visione del mondo così ampia e profonda. E farne arte. Un capitolo speciale merita "Nomadi", brano scritto da Juri Camisasca, figura centrale e silenziosa del mondo battiatesco. Le sue parole – "Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità, nelle nebbie del nord e nei tumulti delle civiltà" – sono una fotografia perfetta dell’inquietudine umana e del desiderio di distacco dal mondo. Battiato ne ha fatto un inno dell’anima errante. Oggi Juri non è più un monaco, ma vive appartato in Sicilia, tra natura e silenzio. La sua arte, come la sua vita, resta una testimonianza viva di spiritualità in musica. Se hai qualcosa dentro, se ti interroghi, se cerchi, non puoi non ascoltare Battiato. Come i grandi cantautori italiani, è uno di quei compagni silenziosi che ti guidano nei momenti di ricerca e di consapevolezza. Con questo articolo inauguro una nuova rubrica del mio blog: un ciclo dedicato ai cantautori italiani. Non sarà un’analisi tecnica o biografica, ma un racconto intimo. Scriverò di loro, certo, ma soprattutto scriverò delle sensazioni che hanno saputo suscitarmi, della mia esperienza soggettiva nel dialogare con la loro arte.
E non potevo che iniziare da Franco Battiato.