Franco Califano, tra cielo e periferie dell’anima

Pubblicato il 21 agosto 2025 alle ore 00:39

di PIERANTONIO LUTRELLI - Franco Califano nacque sospeso, quasi a metà tra cielo e terra, durante un volo che sorvolava Tripoli. Un destino già fuori dalle coordinate ordinarie, con radici che affondavano nel cuore dell’Agro nocerino-sarnese: il padre di Pagani, la madre di Nocera Inferiore. Origini campane autentiche, che però non bastarono a definirlo: la sua vita si intrecciò subito con Roma, città che lo adottò e che lui trasformò in teatro di tutte le sue notti e di tutte le sue malinconie. Se lo chiamavano “il Califfo” era perché incarnava, più di chiunque altro, quella romanità che sapeva ridere, amare, cadere e rialzarsi senza mai chiedere il permesso. Ma dietro la maschera da viveur e conquistatore instancabile si celava un uomo che scriveva con la pelle, che rattoppava le proprie ferite con le parole, trasformando le sue “vidaffie” – come lui le chiamava – in musica e poesia. La toppa non era un vezzo, ma un modo di sopravvivere: scrivere era il suo atto di resistenza, la cucitura che impediva all’esistenza di sfilacciarsi del tutto. Prima di diventare voce, Califano fu penna. Grande autore, capace di regalare ad altri interpreti canzoni che hanno segnato la musica italiana: da Ornella Vanoni a Mia Martini, da Mina a Peppino di Capri, fino a decine di nomi che hanno cantato parole nate dalla sua malinconia allegra, da quella leggerezza che sapeva nascondere la ferita. Solo dopo, quando decise che non bastava più prestare i suoi versi agli altri, scelse di salire in prima persona sul palco. E lì, con “Tutto il resto è noia”, trovò la consacrazione di un pubblico che capì di avere davanti un uomo che non si stava inventando nulla, ma semplicemente raccontava se stesso. Califano fu sempre fedele alla sua autenticità, anche quando gli costò cara. Amava le contraddizioni e le rivendicava senza filtri. Non cercò mai indulgenza, non si difese dalle cadute, anzi: le trasformava in canzoni. Così il suo percorso, fatto di arresti, ritorni, teatri di provincia e platee televisive, divenne la trama di un romanzo vissuto fino all’ultima riga. E in quel romanzo ci sta anche la promessa di “Non escludo il ritorno”, canzone-manifesto che suona ancora come una dichiarazione d’intenti: un artista non muore mai davvero finché le sue parole continuano a parlare per lui. Oggi, ricordare Califano significa restituire la verità di un uomo che non volle mai barattare la sua autenticità con la convenienza. Era campano nelle radici, romano nell’anima, ma soprattutto libero nel modo di vivere e di scrivere. Un poeta capace di cantare le periferie dell’esistenza con la stessa forza con cui celebrava la leggerezza di una notte d’estate. Forse la sua essenza è tutta racchiusa in “Un tempo piccolo”: la consapevolezza che la vita scivola via veloce, che gli amori passano e le cadute lasciano cicatrici, ma che ogni attimo, se cantato con sincerità, può diventare eterno. Franco Califano resta lì, sospeso, come il giorno in cui è venuto al mondo: a metà tra il cielo e le periferie dell’anima, dove tutto è fragile ma niente è noia.

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