Ferragosto senza ritorno

Pubblicato il 15 agosto 2025 alle ore 14:43

di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono date che non si cancellano. Per me è il 15 agosto 1977. Quel giorno, sul Monte Pollino, non è scomparsa soltanto mia nonna Angela: si è interrotta anche la musica quotidiana dei suoi gesti, quella trama di rumori che per noi bambini era la vita stessa. Mia nonna Angela Briamonte, nata nel 1904 a Colobraro, era fatta di silenzi e di suoni. Si svegliava prima dell’alba, quando nel paese si sentivano soltanto i richiami dei galli e le porte che cigolavano. Il primo segnale della sua presenza era lo sbattere rapido di un cucchiaio nella tazza con l’uovo fresco e il marsala: era il nostro risveglio, la sua cura per noi nipoti. Tutto di lei parlava attraverso i rumori: la madia che scricchiolava sotto la pressione delle sue mani forti, la scopa che batteva secca sul pavimento di pietra, le pentole di rame che ribollivano di pomodori, l’acqua che scrosciava nel catino, il pane che cuoceva con il crepitio della legna nel forno. Non c’era bisogno di parole: sapevamo che c’era, che teneva insieme la casa e la famiglia. Anche i suoi silenzi avevano un suono: il fruscio del fazzoletto nero quando si chinava, i passi veloci sul cortile, lo sbattere dei panni stesi. Persino il suo respiro, affaticato ma regolare, era un rumore che dava sicurezza. Ogni gesto, ogni abitudine, era un tassello di quella colonna sonora domestica che ci faceva sentire protetti. Il Ferragosto del 1977 fu diverso. La montagna quel giorno era piena di voci: le risate dei cugini, il frinire delle cicale, il crepitio della brace, i fiaschi di vino che tintinnavano. Poi, all’improvviso, ci fu un vuoto. Mia nonna si allontanò dietro un cespuglio e non tornò più. Rimase il silenzio. E quel silenzio faceva più paura di qualsiasi rumore. La sera arrivarono le torce, i richiami nel buio, i rami che si spezzavano sotto i piedi di chi cercava. Ricordo le voci ripetere il suo nome: “Mamma! Zi Angela!”. Eppure nessuna risposta, nessun rumore familiare che annunciasse il suo ritorno. Solo il vento, solo la montagna. Per settimane il Pollino fu attraversato da suoni diversi: il latrare dei cani molecolari, le radio gracchianti dei carabinieri, i passi stanchi dei volontari. Ma nulla. Nessuna traccia. Nessun rumore che ci restituisse la sua presenza. Dopo dieci anni arrivò la dichiarazione di morte presunta. Ma senza una tomba, senza un fiore, senza una lapide, quella perdita restò sospesa, come un suono interrotto a metà. Da bambino, raccontai a scuola la verità: “Mia nonna si è persa a Ferragosto. Forse l’ha mangiata un lupo”. Lo dissi con innocenza, con le parole che avevo sentito in casa. La maestra non credette alla mia storia. Disse che inventavo. Eppure, dentro di me, sapevo che quella vicenda era reale perché era fatta di rumori: le grida, i passi, il buio della montagna. Non erano invenzioni, erano ricordi sonori. Oggi, quarantotto anni dopo, quando penso a lei non vedo soltanto un volto. La sento. Sento il cucchiaio che sbatte nella tazza, il pane che lievita, la legna che scoppietta, il respiro che accompagna le sue giornate infinite. E so che raccontare significa ridare vita a quei rumori, restituire un ritmo a ciò che la scomparsa ha interrotto. Per questo scrivo: perché finché ci sarà qualcuno disposto ad ascoltare, mia nonna Angela non sarà scomparsa davvero.