
di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono calciatori che restano impressi nella memoria per i trofei vinti, per le maglie indossate, per i record infranti. E poi c’è Roberto Baggio, che ha lasciato un segno indelebile nei cuori degli appassionati di calcio, non solo per le sue imprese sul campo, ma per l’emozione che ha saputo trasmettere ogni volta che toccava il pallone. Ricordo ancora nitidamente la prima volta che lo vidi giocare: era il 17 settembre 1989, Napoli-Fiorentina al San Paolo. La Fiorentina era in vantaggio per 2-0 e uno dei gol fu una perla di Baggio: partì da lontano, dribblò quattro o cinque giocatori del Napoli e segnò un gol che sembrava uscito da un sogno. Quel giorno, nonostante la rimonta del Napoli guidata da un Maradona appesantito ma sempre geniale, capii che quel ragazzo con il codino aveva qualcosa di speciale. La carriera di Baggio è stata un viaggio attraverso le principali squadre italiane: Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Eppure, quando pensiamo a lui, la prima immagine che ci viene in mente è quella della maglia azzurra della Nazionale. Come Gigi Riva prima di lui, Baggio è diventato il simbolo dell’Italia calcistica, più che di qualsiasi club. Il suo talento era puro, cristallino. Nonostante un grave infortunio al ginocchio a soli 18 anni, che oggi sarebbe stato più facilmente superabile grazie ai progressi della medicina sportiva, Baggio ha saputo reinventarsi, adattarsi, brillare. Dribbling fulminanti, calci piazzati millimetrici, visione di gioco superiore, una correttezza esemplare: mai una protesta, mai un fallo gratuito. Un vero signore del calcio. Il Mondiale del 1994 negli Stati Uniti è stato il suo apice e, al contempo, la sua croce. Trascinò l’Italia fino alla finale con prestazioni straordinarie, segnando gol decisivi contro Nigeria, Spagna e Bulgaria. Ma quella finale contro il Brasile, giocata da infortunato, si concluse con quel rigore calciato alto. Un momento che ancora oggi fa male ricordare, ma che non può oscurare la grandezza del suo percorso. Nel 2002, a 35 anni, dopo aver lottato per tornare in forma, sperava in una convocazione per il Mondiale in Corea e Giappone. Ma il CT Trapattoni decise diversamente. Una delusione che aggiunge un’ulteriore nota malinconica alla sua storia. Dopo il ritiro, Baggio ha scelto una vita lontana dai riflettori, dedicandosi alla famiglia, alla natura, alla sua azienda agricola. Un campione che ha preferito la semplicità alla mondanità, rimanendo nel cuore di tutti noi come l’emblema di un calcio fatto di passione, talento e umiltà. Oggi, se penso al più grande calciatore italiano di tutti i tempi, il mio cuore dice Roberto Baggio. Perché oltre ai numeri, ai trofei, ai gol, c’è l’emozione che ha saputo regalarci. E quella, non si dimentica.