
di PIERANTONIO LUTRELLI - C’era una volta Noja. È così che si chiamava un tempo l’attuale Noepoli (nella foto di basilicatawayglo.it), piccolo borgo lucano incastonato nel cuore del Parco Nazionale del Pollino. Il nome antico, probabilmente di origine greca o latina, custodisce la memoria di un luogo che ha attraversato secoli di storia, trasformandosi senza mai perdere la sua identità. Nel Medioevo, Noja fu terra di feudatari e baroni, mentre molto prima, sotto l’Impero Bizantino, rappresentava un avamposto spirituale e culturale. È da quell’epoca che nasce il culto della Madonna di Costantinopoli, icona sacra che ancora oggi è fulcro della devozione popolare e che ogni anno, il 6 agosto, viene celebrata con una solennità che attraversa generazioni. Il giorno prima, il 5 agosto, la festa era già nell’aria. C’era la fiera: un evento attesissimo, un vero punto di riferimento per chi viveva in una civiltà contadina, agropastorale, dove l’arrivo delle bancarelle rappresentava una finestra sul mondo. Prima dell’era di Amazon, dei centri commerciali e della distribuzione capillare, la fiera era l’unico momento dell’anno in cui si poteva comprare qualcosa di nuovo – spesso un vestito o un paio di scarpe – da indossare con orgoglio proprio il giorno della festa. Era un rito collettivo e personale insieme, segno di appartenenza e rinnovamento. Noepoli non è solo un paese. È il paese di mia madre, Filomena Miraglia, il luogo delle mie origini più vere. Quando da Bergamo – dove sono nato nel 1971 – tornavo ogni estate, fino al 1982, trovavo qui un mondo diverso, lento, autentico, profumato di fieno e di legna, pieno di visi familiari e mani callose, sincere. Ricordo le grandi tavolate con i parenti, i sapori forti e veri della tradizione: soppressate conservate con cura per noi “forestieri”, fatte assaggiare con orgoglio, come un dono prezioso. Il vino fatto in casa, che anche se non ti piaceva dovevi dire che era buono, perché rifiutarlo era quasi un’offesa. E poi il bar del paese, dove si faceva la fila per un ghiacciolo, dove si chiacchierava aspettando di fare una telefonata dal posto pubblico, in un’epoca in cui le notizie viaggiavano piano, ma i legami erano forti. C’era, in quegli anni, una vita lenta, fatta di piccoli gesti, di valori condivisi, di comunità. Una vita che oggi sembra lontana, quasi perduta, ma che resta viva dentro chi l’ha vissuta davvero. Nel 1863, il paese cambiò nome, diventando Noepoli – “nuova città” – quasi a segnare un nuovo inizio. Eppure, in fondo, Noepoli è rimasta fedele a se stessa: un luogo sospeso tra la storia e il cuore, tra la fede e la memoria. Oggi, Noepoli è meta di chi cerca l’autenticità, il silenzio, il ritorno all’essenziale. E per me resta un luogo dell’anima, dove tutto è cominciato. Ogni pietra, ogni angolo, ogni sorriso è un tassello della mia infanzia, della mia identità, di ciò che sono.