Cinque dita, cinque pere e un popolo in festa (per la sconfitta altrui)

Pubblicato il 1 giugno 2025 alle ore 08:34

di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono serate in cui non vincono né i meriti né la ragione, ma solo le emozioni più antiche e inconfessabili. La finale di Champions League persa dall’Inter per 5-0 contro il Paris Saint-Germain ha scatenato un sentimento diffuso, trasversale, silenzioso e fragorosissimo al tempo stesso: la gioia per la sconfitta dell’altro. Non è un fenomeno nuovo, né esclusivamente sportivo. Ma il calcio, in Italia, ne è da sempre il catalizzatore perfetto. Non conta tanto chi vince, quanto chi perde — e se chi perde è il vicino di casa, il collega, il cugino interista che da settimane paventava un triplete, allora la soddisfazione si moltiplica. Nei minuti successivi al fischio finale, i social sono esplosi. Meme, fotomontaggi, battute che giravano a raffica come coriandoli di un carnevale improvvisato. Il più emblematico? Un fotogramma di Simone Inzaghi che saluta, con la mano aperta. Cinque dita. Cinque gol.
E poi il tormentone alimentato dai meme più spietati: le cinque pere. Con tanto di frutti ben in vista, accanto al logo del PSG o alla faccia sconsolata di un Inzaghi digitale. Una creatività popolare irresistibile, che sa essere crudele eppure geniale, e che trasforma una goleada in una narrazione nazionale.
Il sarcasmo ha fatto il resto, incoronando Inzaghi non più Simone, ma Toto Inzaghi — un malinconico tributo a Toto Cutugno, il cantautore dell’Italia che arriva sempre seconda. Seconda in campionato. Seconda in Champions. Seconda ovunque, tranne che nella fantasia tagliente della rete. E mentre Milano si chiudeva in un silenzio amaro, da Torino a Napoli, da Roma a Palermo, si festeggiava come dopo una finale vinta. Non con bandiere tricolori, ma con cuori liberati. Il PSG, per una sera, è diventato lo specchio delle vendette personali. Parigi? Non importa. L’importante era che non vincesse l’Inter. C’è qualcosa di profondamente nostro in questo. L’identità calcistica italiana è costruita più sull’antipatia che sull’appartenenza. Lo dimostra la frase, divenuta virale, attribuita sempre a Inzaghi: “Ma perché vi lamentate? Siamo arrivati secondi in campionato e in Champions.” Un tentativo razionale di difendere una stagione comunque straordinaria. Ma nell’Italia del calcio — e dell’invidia trasversale — la razionalità ha scarso seguito. Non si tratta solo di sport. È una forma di teatro sociale, dove ogni ruolo è codificato. C’è l’eroe tragico (l’interista), il giullare (il tifoso juventino che grida “Merci beaucoup”), l’alleato occasionale (il milanista), e l’osservatore distaccato che ride tra sé, accendendo un sigaro metaforico mentre il mondo brucia di ironia. Nel resto d’Europa si tifa per le squadre connazionali. In Spagna, se il Real gioca contro il Manchester City, i tifosi del Barça si stringono — seppur con moderazione — attorno al simbolo nazionale. In Italia, no. In Italia si sta contro. È più facile, più spontaneo, più divertente. È la vittoria dell’identità negativa: io non sono quello, e mi basta. La domanda finale, allora, non è “perché abbiamo tifato PSG?”. La domanda, semmai, è: cos’altro ci unisce, oggi, con la stessa intensità del dispiacere altrui? Forse nulla. Ma in fondo, anche questo è un collante. Ironico, imperfetto, tutto italiano. E allora forse il vero spettacolo non è stato in campo, ma online. Dalle cinque dita alla mano a "zero tituli", dalla cesta di pere al saluto fiero di un "Toto Inzaghi" diventato icona della "seconditudine", fino al meme del tifoso che chiede le dimissioni mentre Inzaghi risponde con orgoglio: “Siamo vicecampioni d’Italia e d’Europa”. Ed ancora: in alcuni paesi italiani è spuntato persino uno striscione appeso a un balcone con scritto “Merci beaucoup”: l’ironia si è fatta francese, ma il godimento era tutto nazionale. Il folklore digitale ha partorito un intero repertorio di immagini, didascalie e battute che rimbalzeranno per mesi sotto gli ombrelloni, nei gruppi WhatsApp e nei bar. È la nuova epopea del calcio italiano: si gioca su Instagram, si vince a colpi di meme, si perde con una cesta di frutta in mano. Una narrazione collettiva che nasce dalla rete e diventa costume. E forse — al netto dei trofei — è proprio lì che l’Italia vince sempre.