Mango, il canto che non si spegne

Pubblicato il 4 agosto 2025 alle ore 08:07

di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono artisti che non appartengono solo alla musica, ma a un territorio, a un modo di sentire che ti entra dentro e non ti lascia più. Pino Mango era così: non un cantautore qualunque, ma una voce che sembrava venire dalla roccia lucana, che portava il vento delle montagne e l’odore del mare dentro ogni nota. La prima volta l’ho ascoltato in televisione, al Festival di Sanremo, con "Lei verrà". Non ero preparato a quella melodia sospesa, a quelle parole che sembravano dire molto più di quello che la musica pop dell’epoca ci aveva abituati a sentire. Ricordo la sensazione di estraneità e stupore: “Questo non è il solito Sanremo”, pensai. Era altro. Era Mango. Negli anni qualcuno mi ha anche detto che gli somigliavo. Non so se davvero fosse così o se fosse solo suggestione. Ma non mi è mai dispiaciuto. In fondo siamo corregionali, mia madre era di Noepoli, e Lagonegro, il suo paese, non è lontano. Magari condividiamo lo stesso vento che scolpisce le facce e il carattere, quella malinconia tipica di chi è cresciuto tra le montagne e la nostalgia del mare. In un tempo in cui spesso sembra che il successo e i premi siano concessi solo a chi lascia la Basilicata, Mango aveva dimostrato il contrario. Non è mai scappato per cercare riflettori altrove: è rimasto nella sua terra, e da lì ha parlato al mondo intero. È il suo lascito più grande, ancora più delle canzoni: la prova che puoi restare fedele a chi sei e, nonostante tutto, far arrivare la tua voce lontano. Alcune sue canzoni mi sono rimaste cucite addosso. "Mediterraneo" mi torna in mente ogni volta che passo da Maratea: la luce, il sale, il vento tra i capelli… sembra una colonna sonora scritta per quei luoghi. "Oro" è energia pura, la dimostrazione che Mango sapeva unire poesia e ritmo come pochi altri. "Bella d’estate", scritta con Lucio Dalla, ha quella malinconia dolce di un amore che finisce ma resta nei ricordi. "Come Monna Lisa" è un viaggio dentro la bellezza misteriosa, una pittura trasformata in canzone. E poi c’è "La Rondine". Una melodia che sa di partenza, di assenza, di quel dolore sottile che lascia chi vola via senza voltarsi. Ogni volta che la ascolto, sento una ferita che non è solo sua ma di tutti noi che conosciamo cosa significhi un addio. Eppure, la canzone non parla solo di mancanza, ma anche di un desiderio di ritorno, di una speranza che resiste. Quando Angelina Mango, a Sanremo 2024, l’ha riportata sul palco, è stato come se il tempo si fosse piegato. La voce della figlia, fragile e intensa, ha ridato vita alle parole del padre. Non era solo un omaggio, era un abbraccio mancato che finalmente trovava spazio, un ricongiungimento emotivo che andava oltre la musica. In quella sera, la Basilicata intera è sembrata respirare con lei, come se quella rondine fosse tornata a casa, almeno per un momento. La storia di Mango si è chiusa troppo presto, a Policoro, mentre cantava "Oro". Un epilogo improvviso, ma quasi coerente con il suo modo di vivere l’arte: cantare fino all’ultimo respiro, senza riserve, senza calcoli, con l’urgenza di chi sa che la musica è vita. Oggi, quando penso a lui, mi rendo conto che Mango non è solo un ricordo. È una prova di autenticità, un modo di stare al mondo senza compromessi, con le radici salde e le ali spalancate. E finché le sue canzoni continueranno a essere cantate — "Lei verrà", "Mediterraneo", "Oro", "Bella d’estate", "La Rondine" — la sua voce non smetterà di volare.