Francesco De Gregori, il poeta urbano che resiste al tempo

Pubblicato il 8 agosto 2025 alle ore 23:11

di PIERANTONIO LUTRELLI- Francesco De Gregori è uno di quegli artisti che non puoi collocare solo in un’epoca, perché il suo linguaggio attraversa il tempo senza consumarsi. È diventato un riferimento non per moda o per consenso costruito, ma per quella capacità rara di dire le cose in un modo che resta. Lo chiamano da anni “il poeta urbano” e non è un soprannome messo lì per vezzo. La sua scrittura ha il passo delle strade, l’odore dei quartieri, il respiro di una città che non dorme mai. Roma, soprattutto. La Roma che osserva e racconta, quella che a volte accarezza e a volte giudica, che ti fa innamorare e ti esaspera. Nato nella capitale nel 1951, De Gregori cresce in un periodo in cui la musica non era solo intrattenimento: era dibattito, confronto, presa di posizione. Nei folk club romani si respirava un’aria di curiosità e sfida. Chi saliva sul palco non cercava di imitare, ma di aggiungere una voce al coro delle storie del Paese. È in quell’ambiente che il giovane Francesco affina un linguaggio che resterà la sua cifra: essenziale, allusivo, mai banale. La sua carriera decolla con Rimmel nel 1975, un disco registrato in modo libero, fuori dalle logiche di produzione standardizzate. Canzoni come Buonanotte fiorellino non nascono da riunioni di marketing, ma da momenti di amicizia e scambio artistico con figure come Fabrizio De André. Quelle incisioni, realizzate tra camerini e stanze d’albergo, sono la testimonianza di un’epoca in cui la creatività poteva ancora permettersi di essere istintiva. Negli anni seguenti, De Gregori firma brani che diventano parte del lessico affettivo di milioni di persone: Generale, La donna cannone, Titanic. Tra queste pagine musicali trova posto anche Sempre e per sempre, una delle sue dichiarazioni più limpide e durature sul sentimento amoroso, capace di unire intimità e universalità in pochi minuti di musica. È un brano che parla di legami che resistono al tempo, come pietre levigate dall’esperienza, e che molti considerano tra i vertici della sua scrittura. Ma il successo, negli anni Settanta e Ottanta, non era un territorio pacifico. Essere popolare significava anche esporsi a critiche dure, a contestazioni, a interpretazioni forzate del proprio lavoro. C’era sempre qualcuno pronto a leggere nelle canzoni un messaggio politico preciso, anche quando il messaggio era più ampio e complesso. Nonostante questo, De Gregori non ha mai smesso di percorrere la sua strada, evitando di piegarsi alle aspettative del momento. Negli anni recenti, ha dimostrato una coerenza rara, criticando apertamente l’omologazione del panorama musicale: produttori che “aggiustano” gli artisti fino a renderli intercambiabili, autori che scrivono per tutti allo stesso modo, voci rese artificiali dall’uso eccessivo dell’autotune. Per lui, la musica vera è quella che conserva le cicatrici della sua creazione: una nota stonata che emoziona più di un’esecuzione perfetta, un testo che spiazza invece di rassicurare. Questa filosofia si è ritrovata anche nella recente tournée con Antonello Venditti, amico di lunga data. I due hanno condiviso il palco con la complicità di chi si conosce da una vita, intrecciando repertori e ricordi. Roma Capoccia, cantata a due voci, è stata un momento di comunione con il pubblico, una celebrazione della città che li ha visti crescere artisticamente. Ma non solo: brani dell’uno e dell’altro si sono alternati e mescolati, creando un concerto che era più un dialogo che una scaletta. La romanità di De Gregori non è mai stata folklore di maniera. Non si limita a usare un dialetto o a citare luoghi, ma si manifesta in uno sguardo preciso: quello che sa sorridere anche di fronte alla durezza, che trova la bellezza nei dettagli trascurati, che non ha paura di mescolare il lirico con il quotidiano. È lo stesso sguardo che emerge quando parla del presente, con la lucidità di chi non si fa sedurre dall’effimero. Essere poeta urbano, per De Gregori, significa raccontare le città e le persone senza trasformarle in cartoline. Significa lasciare spazio alle contraddizioni, alle crepe, ai silenzi. E soprattutto significa non perdere mai di vista la verità, anche quando non è comoda. Forse è questa la ragione per cui, a distanza di decenni, le sue canzoni continuano a parlare a un pubblico nuovo: perché dentro c’è vita vera, e la vita vera non invecchia.