di PIERANTONIO LUTRELLI - Il 4-1 che l’Italia ha appena incassato dalla Norvegia non è un risultato pesante: è una scossa tellurica. Un colpo allo stomaco che fa tremare i polsi perché ci rimette, per la terza volta consecutiva, davanti all’incubo concreto di non andare ai Mondiali. Manca ancora tempo, certo, e i playoff sono lì, a marzo, a ricordarci che la porta non è chiusa. Ma la sensazione, forte e dolorosa, è che stavolta non sia un problema di moduli, né di scelte del CT, né di errori di serata. Qui siamo di fronte a qualcosa di più grande, di più profondo: una caduta strutturale del nostro calcio, una regressione tecnica e culturale che ormai non riusciamo più a nascondere. E non è giusto mettere questa croce sulle spalle di Gattuso. Il suo volto teso a fine partita dice tutto: il carattere non gli manca, la determinazione nemmeno. Gattuso non molla, non arretra di un centimetro, resta il combattente che tutti conosciamo. Ma il problema è un altro: Gattuso pesca da un serbatoio povero, da un sistema che negli ultimi vent’anni ha smesso di produrre campioni. E un commissario tecnico, da solo, non può trasformare giocatori normali in fuoriclasse. La verità è che quando guardiamo quella Nazionale che vinse il Mondiale – la Nazionale definita “dei V.I.P.”, dei veri leader, dei campioni veri – la differenza è brutale. Lì dentro c’erano Pirlo, Cannavaro, Nesta, Buffon, Totti, Del Piero. Gente che teneva in piedi la squadra anche nei momenti peggiori. Gente che vedevi in campo e ti dava la percezione immediata di solidità, tecnica, personalità. Oggi non ce n’è uno, e non per cattiveria o per mancanza di rispetto verso i ragazzi che stanno sudando la maglia: semplicemente non appartengono a quella categoria lì. E allora il punto è: come siamo arrivati a questo deserto? Ci sono segnali che conosciamo ma che non vogliamo mai affrontare. Oggi su YouTube le clip più viste dai ragazzini non sono quelle degli attaccanti di oggi, ma quelle di Roberto Baggio, che ha 58 anni e continua a essere un riferimento per generazioni che non lo hanno neppure mai visto giocare dal vivo. Lo stesso vale per Del Piero, Totti, Ronaldo il Fenomeno, Maradona. I video di questi giocatori fanno milioni di visualizzazioni perché i ragazzi ci trovano qualcosa che nel calcio moderno, soprattutto nel calcio italiano, non vedono più: la fantasia, il coraggio, il dribbling, l’imprevedibilità. Oggi chi sa saltare l’uomo vale milioni e milioni di euro proprio perché è diventato una rarità. E quando una cosa diventa rara significa che il sistema non la produce più. E allora dobbiamo dircelo chiaramente: l’Italia non forma più giocatori estrosi. Non li forma perché non li cerca, non li allena, non li protegge. Le strade, le spiagge, gli oratori sono spariti. Quei luoghi dove nasceva la creatività, dove i bambini giocavano ore e ore senza istruzioni, senza moduli, senza che qualcuno li correggesse ogni trenta secondi. Oggi la formazione avviene quasi esclusivamente nelle scuole calcio, e molte volte – con tutto il rispetto – sono guidate da persone che spiegano diagonali, pressing e transizioni prima ancora che un bambino impari a stoppare un pallone in corsa. Il risultato è davanti ai nostri occhi: un calcio che produce atleti funzionali, non artisti. E il dribbling, che è la prima forma di libertà calcistica, è diventato un gesto sospetto, rischioso, quasi proibito. Chi prova a saltare l’uomo viene guardato come un irresponsabile. E allora che cosa pretendiamo quando arrivano le Norvegie, le Svizzere, le Croazie, le Slovenia, tutte squadre che corrono, verticalizzano, pressano e soprattutto giocano senza paura? Il punto non è la Norvegia, non è Haaland, non è la partita di stasera. Il punto è che il nostro calcio è involuto. Ha perso coraggio, ha perso fantasia, ha perso la semplicità del gesto naturale. Se dalle favelas e dalle spiagge di Copacabana continuano a uscire giocatori che saltano tre uomini in cinque metri e nelle nostre scuole calcio non ne nasce più neanche uno, allora la domanda è inevitabile: dove stiamo sbagliando? La sconfitta di stasera è solo il sintomo. La malattia è un’altra: non stiamo più formando il talento. E senza talento, senza giocatori che fanno la differenza, senza personalità che cambiano le partite, puoi mettere qualsiasi commissario tecnico, qualsiasi schema, qualsiasi idea di gioco: il risultato non cambierà. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di tornare a una cosa semplice, quasi banale ma decisiva: riportare l’estro al centro della formazione. Chi sa creare, chi rischia, chi inventa, chi salta l’uomo non va addomesticato, va protetto. Va lasciato libero. Va coltivato. Perché senza quel tipo di giocatore, senza quei Baggio, quei Totti, quei Del Piero, senza quella qualità lì, possiamo anche arrivare ai playoff con grinta e voglia di riscattare tutto. Ma l’orizzonte resta fragile. Il 4-1 di questa sera fa male. Fa male perché non è un incidente, ma uno specchio. E ci mostra un sistema che si è fermato, che si è normalizzato, che ha perso la sua identità più preziosa. Ora bisogna ripartire. Con coraggio. Con lucidità. E con un’idea chiara: il talento non nasce nei moduli, nasce nella libertà.