De Laurentiis, il burbero che aveva ragione: il Napoli vince il quarto scudetto

di PIERANTONIO LUTRELLI - Napoli ci credeva. Napoli ci sperava. Ma forse nemmeno il più ottimista dei tifosi avrebbe immaginato che, nel giro di tre anni, la squadra azzurra avrebbe issato al cielo per ben due volte il tricolore. Dopo la magia di Maradona negli anni ’80, è toccato al “presidente burbero”, Aurelio De Laurentiis, scrivere nuove pagine nella storia partenopea. Con lo scudetto 2025, sono quattro i titoli della storia azzurra: due con Diego, due con Aurelio. Eppure, non è stato un cammino lineare. De Laurentiis ha spesso diviso, più che unito. Ha mangiato allenatori come fossero antipasti domenicali, ha rivoltato le rose come calzini, ha fatto piazza pulita anche quando tutto sembrava andare bene. Spalletti se n’è andato da campione, eppure via. Garcia? Un lampo. Mazzarri-bis? Esperimento fallito. Ma lui, il presidente, ha sempre tirato dritto. Ostico, ruvido, impopolare, ma visionario. Dietro le smorfie e le polemiche, De Laurentiis ha costruito un impero con metodo e ossessione. Il terzo scudetto, quello del 2023 con Osimhen e Kvaratskhelia protagonisti, era stato accolto come una favola. Ma il quarto, conquistato con una rosa rivoluzionata e l’ennesimo tecnico nuovo in panchina, è il suggello della sua strategia. Chi lo criticava per il suo “cinema” – in tutti i sensi – oggi deve ammettere che la sceneggiatura era giusta. Ha rilanciato il settore giovanile, costruito una società sana e patrimonializzata, ha investito dove serviva e tagliato dove necessario. In un calcio italiano spesso convalescente, il Napoli di De Laurentiis è diventato un modello industriale e sportivo. Maradona rimane il santo laico, il fuoriclasse che ha dato i primi due tricolori. Ma oggi, in bacheca, ci sono altri due scudetti. Non portano la firma di un 10 argentino, ma quella di un produttore testardo che a modo suo ha riscritto la storia. E allora, volenti o nolenti: ha avuto ragione lui.

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Ronaldo il Fenomeno: il marziano che ha riscritto le leggi del calcio

di PIERANTONIO LUTRELLI - In ogni epoca del calcio, c'è un nome che brilla più degli altri. Per i nostri genitori o i nostri nonni fu Pelé, l’uomo che con grazia, potenza e istinto felino regalò al Brasile tre Coppe del Mondo (1958, 1962, 1970). Per quelli della mia età fu Diego Armando Maradona, il genio ribelle, il poeta del pallone, l’eroe di Napoli e dell’Argentina, capace di segnare il gol del secolo e, con la “Mano de Dios”, scrivere una delle pagine più iconiche della storia del calcio. Ma per chi ha vissuto gli anni ’90 e i primi 2000, per chi ha visto il calcio con gli occhi sgranati di un bambino o con l’anima passionale di un tifoso, il più grande di tutti è stato uno solo: Ronaldo Luís Nazário de Lima. Il Fenomeno. Il talento che non sembrava umano. Infatti Ronaldo non era un calciatore. Era un’esplosione di forza, grazia e tecnica che sembrava piovuta da un altro pianeta. A soli 17 anni incantava al Cruzeiro, poi il salto in Europa: il PSV Eindhoven, e subito dopo un Barcellona folgorato dal suo talento. In una sola stagione in blaugrana, fece 47 gol in 49 partite. Numeri irreali, ma non erano solo le statistiche a renderlo leggenda: era il modo in cui segnava, saltando portieri, disintegrando difese intere, con una naturalezza che faceva sembrare il calcio il gioco più semplice del mondo. Poi arrivò l’Inter. E fu amore. Un amore totale, passionale, a volte doloroso. A San Siro Ronaldo non era solo un attaccante: era l’uomo che metteva paura a ogni difensore del campionato più difficile del mondo. Nesta, Maldini, Cannavaro: tutti hanno confessato, anni dopo, che affrontare Ronaldo era come cercare di fermare un uragano con le mani. “Partiva dopo e arrivava prima”, dicono. Quel doppio passo, quella progressione, quel controllo di palla in corsa a velocità disumana, rendevano inutile ogni tentativo di fermarlo. Ma anche gli dei cadono. Il ginocchio crolla, la carriera si interrompe, il mondo resta col fiato sospeso. L’Inter lo aspetta. Moratti lo coccola come un figlio. Ma quando Ronaldo torna, ha bisogno di voltare pagina. Va al Real Madrid, ai Galácticos. E lì, accanto a Zidane, Beckham, Figo e Roberto Carlos, dimostra che anche mezzo Ronaldo è più di qualsiasi altro intero. A Madrid incanta, segna, conquista. E in nazionale? Lì diventa immortale. Dopo il dramma del 1998, nel 2002 è lui il protagonista assoluto: 8 gol e la Coppa del Mondo, con una doppietta in finale contro la Germania. Ronaldo è di nuovo in cima al mondo. Ronaldo non è stato solo numeri, non è stato solo trofei. È stato emozione pura. È stato l’attesa prima che toccasse palla. Il boato del pubblico mentre partiva in corsa. Gli avversari lo ammiravano in silenzio. È stato l’idolo di una generazione intera, l’unico che metteva d’accordo tutti: tifosi, tecnici, avversari.Ha lasciato il segno ovunque: al Cruzeiro, al PSV, al Barcellona, all’Inter, al Real Madrid, al Milan, e ovviamente con la camiseta verdeoro, con cui ha vinto due Coppe del Mondo (1994 e 2002) e ha segnato 62 gol in 98 presenze. Oggi, mentre si parla di Messi, di Cristiano Ronaldo, di Haaland, di Mbappé, il nome di Ronaldo il Fenomeno continua a evocare qualcosa di diverso. Non solo grandezza, ma magia. Un calciatore che ha giocato con il corpo di un atleta e l’anima di un artista. Che ha saputo essere velocità e potenza, ma anche intelligenza e sensibilità calcistica. Che ha saputo emozionare, e in fondo, è questo che rende eterno un campione. Ronaldo è stato il calcio nella sua forma più pura. Il Fenomeno. Per sempre.

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Un Papa americano: la sorpresa di Leone XIV

di PIERANTONIO LUTRELLI - Chi se lo aspettava davvero? In pochi, forse nessuno. Eppure la fumata bianca dell’8 maggio ha portato con sé un nome che ha sorpreso il mondo intero: Robert Francis Prevost, statunitense, agostiniano, missionario, curiale. È lui il nuovo Pontefice, il primo Papa americano nella storia della Chiesa, e ha scelto un nome solenne e ricco di storia: Leone XIV. Nato a Chicago nel 1955, ma con radici italiane, francesi e spagnole, Prevost ha percorso un cammino lontano dai riflettori: anni trascorsi tra le periferie del Perù, poi il ritorno a Roma con incarichi delicati nella Curia. Un uomo di equilibrio, spiritualità profonda e visione pastorale. Ma nessuno lo dava tra i favoriti del conclave. Il suo nome non campeggiava nei pronostici, nei commenti, nelle analisi. E proprio per questo, la sua elezione assume oggi un valore emblematico: è il segno di una Chiesa che guarda oltre i confini, che osa, che sceglie un volto nuovo per tempi nuovi. Leone XIV si presenta al mondo come simbolo di un ponte tra le Americhe e l’Europa, tra le radici della tradizione e il respiro missionario del presente. La sorpresa è grande. Ma, a ben vedere, forse necessaria.

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Inter leggenda: 4-3 al Barcellona e finale di Champions

di PIERANTONIO LUTRELLI- Un gol al 93’, un altro al 99’. Lacrime, paura, gloria. L’Inter batte il Barcellona 4-3 ai supplementari e conquista una storica finale di Champions League, al termine di una doppia sfida spettacolare e folle: 7-6 il risultato complessivo. Due partite che sembrano uscite da un film, un’epica tutta nerazzurra che ricorda il celebre 4-3 dell’Italia sulla Germania nel 1970. Anche allora una semifinale. Anche allora una battaglia. Anche allora un finale da leggenda. La serata inizia come nei sogni. Al 21’, Lautaro Martínez sblocca il match, poi Çalhanoğlu firma il 2-0 al 45’+1 su rigore. Il Meazza esplode. Ma nella ripresa, il Barcellona si trasforma e in sei minuti ribalta tutto: prima Eric García al 54’, poi Dani Olmo al 60’. Quando al minuto 87 Raphael infila il gol del 3-2, il sogno sembra svanire. E il palo colpito dai blaugrana a dieci dalla fine è un presagio che gela il sangue. Poi, la scintilla. Francesco Acerbi trova il gol del pareggio al 90’+3: una zampata disperata, rabbiosa, l’ultima azione utile prima della fine. Un gol che vale oro, che riporta l’Inter in corsa e trascina la partita ai supplementari. Ed è lì, in quel tempo sospeso tra fatica e gloria, che si compie il destino. Davide Frattesi, al minuto 99, trova la rete del 4-3. È il gol della liberazione, il sigillo che porta l’Inter a Monaco di Baviera. Il Barcellona tenta il tutto per tutto, ma i nerazzurri resistono fino alla fine. Tredici gol in due partite, sette dell’Inter, sei del Barça. Due squadre votate all’attacco, senza calcoli, senza paura. Una semifinale che ha avuto il sapore della finale anticipata, giocata su ogni metro del campo, a viso aperto, tra fuoriclasse e nervi tesi. E se l’andata al Camp Nou era stata pirotecnica (3-3), il ritorno al Meazza è entrato nella leggenda. L’Inter ha avuto il vantaggio di giocare in casa il secondo round grazie a quel pareggio, ma ha dovuto guadagnarsi ogni centimetro di campo con i denti, fino all’ultimo secondo. Solo poche settimane fa, Simone Inzaghi era sulla graticola. Tre sconfitte consecutive, critiche, dubbi, voci di esonero. Oggi, lo stesso Inzaghi è a un passo dal diventare l’eroe di una Champions memorabile. Una lezione anche per chi osserva il calcio (e la vita) con giudizi troppo affrettati: serve tempo per costruire, serve equilibrio per valutare. E spesso non è solo una questione di risultati, ma di visione e coraggio. Tra i protagonisti di questa impresa nerazzurra ci sono anche tanti italiani: Acerbi, Frattesi, Barella. Non è più il tempo delle lamentele sui “troppi stranieri”. Il problema degli ultimi anni, per la Nazionale, è stato l’assenza di italiani pronti, davvero pronti, per palcoscenici importanti. Ora qualcosa sta cambiando. Finalmente tornano a farsi vedere calciatori italiani in grado di incidere nelle grandi notti europee. Ed è questa una notizia che fa ben sperare anche per il futuro della maglia azzurra, che ha tanto bisogno di nuove certezze. Nel 1970, dopo il 4-3 alla Germania, l’Italia si arrese al Brasile di Pelé e Rivelino. L’auspicio oggi è che l’Inter possa scrivere un finale diverso. Ma già ora questa squadra ha regalato ai suoi tifosi una notte da tramandare, una favola di orgoglio, sofferenza e riscatto. Perché il calcio è anche questo: un riflesso della vita, in cui nulla è mai davvero perduto.

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Noepoli: il paese che racconta la mia storia

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’era una volta Noja. È così che si chiamava un tempo l’attuale Noepoli (nella foto di basilicatawayglo.it), piccolo borgo lucano incastonato nel cuore del Parco Nazionale del Pollino. Il nome antico, probabilmente di origine greca o latina, custodisce la memoria di un luogo che ha attraversato secoli di storia, trasformandosi senza mai perdere la sua identità. Nel Medioevo, Noja fu terra di feudatari e baroni, mentre molto prima, sotto l’Impero Bizantino, rappresentava un avamposto spirituale e culturale. È da quell’epoca che nasce il culto della Madonna di Costantinopoli, icona sacra che ancora oggi è fulcro della devozione popolare e che ogni anno, il 6 agosto, viene celebrata con una solennità che attraversa generazioni. Il giorno prima, il 5 agosto, la festa era già nell’aria. C’era la fiera: un evento attesissimo, un vero punto di riferimento per chi viveva in una civiltà contadina, agropastorale, dove l’arrivo delle bancarelle rappresentava una finestra sul mondo. Prima dell’era di Amazon, dei centri commerciali e della distribuzione capillare, la fiera era l’unico momento dell’anno in cui si poteva comprare qualcosa di nuovo – spesso un vestito o un paio di scarpe – da indossare con orgoglio proprio il giorno della festa. Era un rito collettivo e personale insieme, segno di appartenenza e rinnovamento. Noepoli non è solo un paese. È il paese di mia madre, Filomena Miraglia, il luogo delle mie origini più vere. Quando da Bergamo – dove sono nato nel 1971 – tornavo ogni estate, fino al 1982, trovavo qui un mondo diverso, lento, autentico, profumato di fieno e di legna, pieno di visi familiari e mani callose, sincere. Ricordo le grandi tavolate con i parenti, i sapori forti e veri della tradizione: soppressate conservate con cura per noi “forestieri”, fatte assaggiare con orgoglio, come un dono prezioso. Il vino fatto in casa, che anche se non ti piaceva dovevi dire che era buono, perché rifiutarlo era quasi un’offesa. E poi il bar del paese, dove si faceva la fila per un ghiacciolo, dove si chiacchierava aspettando di fare una telefonata dal posto pubblico, in un’epoca in cui le notizie viaggiavano piano, ma i legami erano forti. C’era, in quegli anni, una vita lenta, fatta di piccoli gesti, di valori condivisi, di comunità. Una vita che oggi sembra lontana, quasi perduta, ma che resta viva dentro chi l’ha vissuta davvero. Nel 1863, il paese cambiò nome, diventando Noepoli – “nuova città” – quasi a segnare un nuovo inizio. Eppure, in fondo, Noepoli è rimasta fedele a se stessa: un luogo sospeso tra la storia e il cuore, tra la fede e la memoria. Oggi, Noepoli è meta di chi cerca l’autenticità, il silenzio, il ritorno all’essenziale. E per me resta un luogo dell’anima, dove tutto è cominciato. Ogni pietra, ogni angolo, ogni sorriso è un tassello della mia infanzia, della mia identità, di ciò che sono.

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Claudio Ranieri, l’ultimo signore del calcio saluta: un addio da leggenda

di PIERANTONIO LUTRELLI - A quasi 74 anni, Claudio Ranieri ha deciso: a fine stagione dirà addio al calcio giocato, chiudendo un cerchio iniziato oltre cinquant’anni fa sui campi di periferia. Lo farà con lo stile che da sempre lo contraddistingue: quello di un uomo elegante, umile, concreto, capace di imprese straordinarie senza mai perdere la semplicità. E ancora una volta, come sempre nella sua carriera, lo fa per amore. Amore per la sua Roma, che da tifoso ha accettato di guidare in corsa, in una stagione complicata, trascinandola a un passo da un sogno europeo e regalandole vittorie pesanti come quella, epica, conquistata a San Siro contro l’Inter. Ranieri non si è mai stancato di compiere imprese. Dai trionfi internazionali al miracolo Leicester – forse il più romantico della storia recente del calcio – il tecnico romano ha saputo riscrivere il concetto stesso di “squadra”: sacrificio, compattezza, spirito di gruppo. In Premier League ha lasciato un segno indelebile, conquistando il titolo con le Foxes nel 2016, sfidando ogni pronostico e facendo innamorare milioni di tifosi in tutto il mondo. Ma la sua impronta è stata forte ovunque: in Spagna, in Francia, in Italia, con promozioni e rilanci di squadre date per finite. Eppure, Ranieri è rimasto sempre lo stesso. Un uomo capace di esultare senza arroganza, di parlare senza alzare i toni, di vincere senza infierire. “Dobbiamo uscire a testa alta”, diceva ai suoi ragazzi. E loro, ieri come oggi, lo hanno seguito. Alla Roma è entrato ancora una volta in punta di piedi, in una stagione complicata, portando con sé il rispetto di uno spogliatoio intero e il sostegno di una tifoseria che in lui vede l’ultimo romantico del calcio. A San Siro, Ranieri ha regalato una lezione di calcio e di cuore: ha battuto l’Inter capolista con coraggio e strategia, mettendo in campo una Roma compatta, determinata, capace di osare senza snaturarsi. “Vincere 1-0 è un’arte”, ha detto sorridendo. E in effetti, chi meglio di lui ha saputo rendere epica la concretezza? Il futuro? “Se mi manca la panchina, andrò al giardinetto”, ha detto con ironia dopo aver già consegnato il tesserino a Coverciano. Nessun ripensamento, nessun dramma. Solo gratitudine e dignità. E mentre il calcio cambia pelle, rincorrendo mode e social, Ranieri lascia con la testa alta e con il rispetto universale che solo i grandi sanno guadagnarsi. Il suo è un addio vero, sentito, come ogni passo della sua lunga carriera. Claudio Ranieri, l’ultimo signore del calcio, ci lascia in eredità qualcosa di raro: la certezza che si può vincere senza mai perdere l’anima.

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Dalla 219 di Pomigliano al mito: Totò Di Natale, genio e umanità

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’è un ragazzo che nasce e cresce nella 219 di Pomigliano d’Arco, quartiere difficile dove il pallone è più di un gioco: è speranza, è sogno, è futuro. Quel ragazzo si chiama Totò Di Natale, e con il pallone ai piedi disegna poesia tra le strade polverose, mostrando da subito una tecnica sopraffina, un talento naturale che sfida ogni barriera. Di Natale non è uno da riflettori accecanti. Non è il protagonista delle prime pagine, eppure chi sa di calcio lo riconosce subito: ha il baricentro basso, la leggerezza degli aeroplanini, la concretezza di chi ha imparato a difendere il pallone come si difende la vita. La sua traiettoria ricorda quella di Vincenzo Montella, compagno di terra e di destino: entrambi partono da Pomigliano, entrambi cercano fortuna lontano, e trovano il trampolino a Empoli, una piccola piazza capace di credere nei sogni grandi. A Udine Totò trova la sua casa, il suo regno silenzioso. Lì, lontano dalle sirene dei grandi club, diventa un bomber implacabile, un punto fermo, un esempio. Segna, diverte, incanta. Al fantacalcio, chi scommette su di lui sa di aver trovato un tesoro: costa meno dei “grandi nomi”, ma regala molte più soddisfazioni. Di Natale è talento puro, ma è anche cuore immenso. Quando Piermario Morosini, suo compagno all’Udinese, muore improvvisamente lasciando sola la sorella disabile, Totò non esita: si prende cura economicamente e per sempre di lei, come se fosse parte della sua famiglia. Un gesto semplice, silenzioso, che racconta più di mille parole chi è Totò Di Natale. Nel parlare conserva il suo napoletano verace, la genuinità dello scugnizzo buono, la semplicità di chi non ha mai dimenticato da dove viene. E proprio per questo conquista: perché è autentico, sincero, vero. Oggi, mentre suo figlio rincorre il suo sogno tra i campi di Serie D, Totò Di Natale continua a rappresentare un modello raro: quello del campione che ha preferito la fedeltà alla gloria, l’essenza all’apparenza, il cuore al clamore. Perché nel calcio, come nella vita, non contano solo i trofei o i titoli sui giornali. Contano le persone. E Totò Di Natale resta uno di quei rari fuoriclasse che, anche senza clamore, ha saputo lasciare un segno incancellabile nella memoria di chi ama il calcio vero.

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Roberto Baggio, l’azzurro che portiamo nel cuore

di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono calciatori che restano impressi nella memoria per i trofei vinti, per le maglie indossate, per i record infranti. E poi c’è Roberto Baggio, che ha lasciato un segno indelebile nei cuori degli appassionati di calcio, non solo per le sue imprese sul campo, ma per l’emozione che ha saputo trasmettere ogni volta che toccava il pallone. Ricordo ancora nitidamente la prima volta che lo vidi giocare: era il 17 settembre 1989, Napoli-Fiorentina al San Paolo. La Fiorentina era in vantaggio per 2-0 e uno dei gol fu una perla di Baggio: partì da lontano, dribblò quattro o cinque giocatori del Napoli e segnò un gol che sembrava uscito da un sogno. Quel giorno, nonostante la rimonta del Napoli guidata da un Maradona appesantito ma sempre geniale, capii che quel ragazzo con il codino aveva qualcosa di speciale. La carriera di Baggio è stata un viaggio attraverso le principali squadre italiane: Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Eppure, quando pensiamo a lui, la prima immagine che ci viene in mente è quella della maglia azzurra della Nazionale. Come Gigi Riva prima di lui, Baggio è diventato il simbolo dell’Italia calcistica, più che di qualsiasi club. Il suo talento era puro, cristallino. Nonostante un grave infortunio al ginocchio a soli 18 anni, che oggi sarebbe stato più facilmente superabile grazie ai progressi della medicina sportiva, Baggio ha saputo reinventarsi, adattarsi, brillare. Dribbling fulminanti, calci piazzati millimetrici, visione di gioco superiore, una correttezza esemplare: mai una protesta, mai un fallo gratuito. Un vero signore del calcio. Il Mondiale del 1994 negli Stati Uniti è stato il suo apice e, al contempo, la sua croce. Trascinò l’Italia fino alla finale con prestazioni straordinarie, segnando gol decisivi contro Nigeria, Spagna e Bulgaria. Ma quella finale contro il Brasile, giocata da infortunato, si concluse con quel rigore calciato alto. Un momento che ancora oggi fa male ricordare, ma che non può oscurare la grandezza del suo percorso. Nel 2002, a 35 anni, dopo aver lottato per tornare in forma, sperava in una convocazione per il Mondiale in Corea e Giappone. Ma il CT Trapattoni decise diversamente. Una delusione che aggiunge un’ulteriore nota malinconica alla sua storia. Dopo il ritiro, Baggio ha scelto una vita lontana dai riflettori, dedicandosi alla famiglia, alla natura, alla sua azienda agricola. Un campione che ha preferito la semplicità alla mondanità, rimanendo nel cuore di tutti noi come l’emblema di un calcio fatto di passione, talento e umiltà. Oggi, se penso al più grande calciatore italiano di tutti i tempi, il mio cuore dice Roberto Baggio. Perché oltre ai numeri, ai trofei, ai gol, c’è l’emozione che ha saputo regalarci. E quella, non si dimentica.

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La vera lezione di Papa Francesco: contro il capitalismo predatorio, una Chiesa tra la gente

di PIERANTONIO LUTRELLI - Sin dal primo istante, da quel semplice “Fratelli e sorelle, buonasera” affacciato al mondo, Papa Francesco ha incarnato una visione radicale e necessaria della Chiesa: sobria, spoglia, vicina alla gente. Nessun anello dorato, nessun bastone pastorale vistoso, nessun palazzo principesco come residenza. Solo una Croce, una valigia di pelle consumata e il desiderio instancabile di essere “servo dei servi di Dio”. Ma questo stile non è stato solo un gesto. È stato un messaggio, un manifesto, un affondo potente contro le derive del capitalismo predatorio. Un sistema, ha denunciato più volte, che divora l’uomo, mercifica tutto, allarga le distanze, annienta il debole e idolatra il profitto. Papa Francesco non ha usato giri di parole. Ha definito il denaro “lo sterco del diavolo”. Ha criticato senza mezzi termini la finanza speculativa, l’economia dell’esclusione, il consumo sfrenato che brucia risorse e coscienze. Ha chiesto alla Chiesa di rinunciare a ogni forma di potere temporale che la allontana dagli ultimi. E, soprattutto, ha scelto per sé l’umiltà come abito, la semplicità come profezia. Nella sua visione, la Chiesa doveva tornare a essere “ospedale da campo”, non fortezza autoreferenziale. Doveva parlare con i poveri, non dei poveri. Doveva camminare con gli ultimi, non su tappeti rossi. Una Chiesa in uscita, che non teme di sporcarsi le mani, di stare nelle periferie, non solo geografiche, ma esistenziali. La scelta di rinunciare a simboli di potere, l’attenzione costante alle vittime dell’economia globale, la lotta per la dignità del lavoro e contro lo sfruttamento: tutto questo non è stato semplice buonismo, ma un atto profondamente politico, nel senso più nobile del termine. Un gesto che chiama ogni uomo e ogni donna a riflettere sul mondo che vogliamo costruire. Papa Francesco ci ha lasciato una lezione chiara: o l’umanità torna a mettere l’uomo al centro, o sarà la logica del profitto a disumanizzarci tutti. O riscopriamo il valore della sobrietà, o continueremo a vivere in un sistema che produce scarti umani. E ora che non c’è più, questa voce non deve spegnersi. Sta a noi custodirla, ripeterla, viverla. Non basta ammirare Francesco. Bisogna seguirne l’esempio.

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Il prossimo Papa? Forse è tempo di tornare in Italia

di PIERANTONIO LUTRELLI - È una riflessione che mi accompagna da tempo, e che oggi, in questo contesto così fragile e frastagliato, sento il bisogno di condividere: il prossimo Papa potrebbe — e forse dovrebbe — essere italiano. Da oltre quattro decenni la Chiesa ha guardato lontano, scegliendo papi provenienti da terre simbolicamente e strategicamente importanti. Prima Giovanni Paolo II, dalla Polonia, a segnare la fine della Guerra Fredda. Poi Benedetto XVI, dalla Germania, voce della teologia e del rigore. E infine Francesco, il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, portatore di un’umanità nuova, profetica, e profondamente pastorale. Ma oggi lo scenario è diverso. L’Europa non è più il centro del mondo, ma resta un nodo cruciale nel destino della Chiesa cattolica. È il continente in cui la fede arranca, ma in cui la domanda di senso, spesso silenziosa, è ancora viva. Un Papa europeo, capace di comprenderne le tensioni culturali, sociali e spirituali, potrebbe essere una risposta forte. E tra i Paesi europei, l’Italia — per tradizione, per centralità, per presenza nella Curia — si ripropone come candidata naturale. Se non sarà nuovamente la Germania (e dopo Ratzinger, sembra improbabile), perché non l’Italia? Il collegio cardinalizio offre profili di grande spessore. Alcuni, già oggi, emergono con chiarezza: Matteo Zuppi, il cardinale “di strada”, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI, voce inclusiva, instancabile costruttore di dialogo e pace. Pietro Parolin, il Segretario di Stato, figura solida, diplomatico di razza, che conosce ogni piega delle stanze vaticane. Mauro Gambetti, arciprete della Basilica di San Pietro, francescano con forte spiritualità e discrezione operosa. Pier Battista Pizzaballa (nella foto), patriarca latino di Gerusalemme, francescano bergamasco, con una lunga esperienza in Terra Santa. La sua profonda conoscenza del Medio Oriente e il suo impegno per il dialogo interreligioso lo rendono un candidato di rilievo. Non sono previsioni, ma possibilità. In fondo, i conclavi sorprendono sempre, e lo Spirito si muove libero. Ma l’idea di un Papa italiano oggi non è nostalgia: è, forse, una necessità. Perché la Chiesa, in un tempo così incerto, potrebbe aver bisogno di tornare simbolicamente “a casa”, per ripartire verso il mondo con nuovo slancio.

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Nel silenzio del mattino è morto Papa Francesco

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, è scomparso oggi all’età di 88 anni nella sua residenza a Casa Santa Marta, dopo un ricovero per una polmonite bilaterale. Il suo pontificato, iniziato nel 2013, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa e dell’umanità. E' stato un pontefice che ha segnato il nostro tempo con umiltà, coraggio e una visione di Chiesa aperta e misericordiosa

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Roma, emozione e passione: oltre il calcio, una metafora di vita

di PIERANTONIO LUTRELLI - Recentemente, allo Stadio Olimpico di Roma, si è respirata un'aria di profonda emozione durante la partita di Europa League contro l'Athletic Bilbao, dove la Roma ha trionfato con un gol segnato nei minuti di recupero. Questo evento non è solo una mera vittoria sportiva; rappresenta un momento di celebrazione per una città e una tifoseria che, nel corso degli anni, hanno vissuto alti e bassi, ma che continuano a sostenere con passione la propria squadra del cuore. La storia della Roma è scolpita nella memoria collettiva della capitale. Con soli tre scudetti, la Roma non è la squadra con il palmarès più ricco, ma la sua leggenda è fatta di icone immortali che hanno calcato il terreno di gioco e lasciato un'impronta profonda. Dalla classe di Paolo Roberto Falcao e Bruno Conti, passando per le gesta di Agostino Di Bartolomei e Roberto Pruzzo, fino ad arrivare ai moderni eroi del campo come Francesco Totti e Daniele De Rossi, ogni nome evoca un ricordo, una emozione, una storia da raccontare. Il “magico” Francesco Totti, capitano indiscusso per 25 anni, ha incarnato l’amore e la dedizione per la maglia giallorossa. Il suo legame con la Roma, unica squadra per cui ha militato, ha sfidato il tempo e i record, trasformandolo in un simbolo di lealtà e passione. Al suo fianco, uomini come Carlo Mazzone, che ha visto la nascita di Totti come calciatore, e l'eroico Claudio Ranieri, che torna alla guida della Roma portando con sé l'esperienza e la saggezza di chi conosce il calcio e la psicologia di ogni giocatore. Ma perché, oltre il risultato sul campo, essere tifosi della Roma è qualcosa di speciale? Perché, nonostante sia una squadra non abituata ai trionfi, l'amore dei suoi tifosi è inguaribile. È una passione che va oltre il semplice conteggio dei trofei. Questo è il cuore della cultura romanista: una celebrazione della bellezza del gioco, dell'unità tra i tifosi e della magia di un momento condiviso. Che si tratti di cantare "Roma Roma Roma" o "Mai sola", c'è una connessione profonda tra il popolo giallorosso e la propria squadra, un legame che si fortifica ogni volta che le bandiere giallo-rosse sventolano sugli spalti. Essere romanisti significa anche accettare la sofferenza e l'adrenalina che accompagnano una stagione. È la consapevolezza che non sempre si vince, ma si gioca con il cuore e si gode del viaggio. La vittoria, quando arriva, sa di autentica magia, come nel 2001 al Circo Massimo, dove oltre un milione di persone festeggiò per il titolo conquistato. In un mondo che spesso celebra il successo immediato, i tifosi della Roma ritrovano significato nel tifo, nella passione e nella comunità che si forma attorno a essi. Il ritorno di Ranieri non è solo un colpo di scena nel mondo del calcio, ma un richiamo al passato che fa rivivere la storia del club. La sua esperienza e la sua umanità gli permettono di guidare la squadra verso traguardi sempre più ambiziosi, ma senza perdere di vista l’importanza di mantenere il giusto spirito. Questo è ciò che faremmo bene a ricordare anche nella vita: il vero successo non risiede esclusivamente nei trofei o nei risultati, ma nella capacità di rialzarsi, di lottare e di rimanere uniti, indipendentemente dagli ostacoli. Essere tifosi della Roma rappresenta una metafora potente della vita. È un invito a vivere con passione e autenticità, a trovare gioia nei piccoli momenti e a costruire legami profondi. Così come nel calcio, nella vita non è importante solo arrivare al traguardo, ma anche il percorso, le esperienze e le emozioni che rendono ogni passo significativo. La Roma è molto più di una semplice squadra: è una scuola di vita che insegna come affrontare le sfide con coraggio e determinazione. Per questo, ogni volta che i giallorossi scendono in campo, lo fanno non solo per vincere, ma per regalare un'esperienza magica a tutti i loro tifosi. E, in fondo, è proprio questo che conta.

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Gli 83 anni di Dino Zoff: una leggenda del calcio italiano

di PIERANTONIO LUTRELLI - Il 28 febbraio 1942, in un piccolo paese del Friuli, Mariano del Friuli in provincia di Gorizia, nacque un uomo che sarebbe diventato uno dei simboli indiscussi del calcio italiano: Dino Zoff. Ieri, Zoff ha compiuto 83 anni, e la sua figura continua a brillare nella memoria calcistica, non solo come portiere della Juventus, ma soprattutto come capitano e allenatore della Nazionale in cui ha lasciato un’impronta indelebile. Dino Zoff non è solo un nome, è una leggenda vivente, un autentico monumento dello sport italiano. Cresciuto in un'epoca in cui il calcio non conosceva le comodità moderne della preparazione atletica, Zoff ha dimostrato che con dedizione e lavoro duro si possono raggiungere vette straordinarie. Il suo debutto in Serie A avvenne nel 1961, e da lì iniziò un percorso che lo avrebbe visto collezionare oltre 550 presenze nel massimo campionato italiano e conquistare trofei nazionali e internazionali, tra cui la Coppa del Mondo del 1982. La sua carriera come portiere è un esempio di maestria tecnica e leadership. Zoff era noto per la sua calma infinita, la sua abilità nel coordinare la difesa e la sua presenza rassicurante tra i pali. Queste qualità hanno alimentato la sua reputazione di uno dei migliori portieri di tutti i tempi. Nonostante i suoi punti deboli, come la vulnerabilità ai tiri da fuori area, il suo senso di posizione e la prontezza di riflessi lo hanno reso una muraglia per gli attaccanti avversari. La leggendaria partita Italia-Brasile ai Mondiali del 1982 è un capitolo fondamentale della sua carriera, dove ha guidato la squadra verso una storica vittoria, bloccando i tentativi dei più temibili giocatori brasiliani. Al Brasile bastava anche il pareggio per andare in semifinale e l'Italia riuscì a vincere contro i pronostici della vigilia con una partita memorabile in cui Zoff fece la sua parte bloccando sulla linea un colpo di testa di Oscar. Ma non solo in quella gara fu memorabile. Il culmine della carriera di Zoff si è manifestato in quel trionfo mondiale, dove alzò il trofeo come capitano della Nazionale italiana. Quella vittoria ha rappresentato molto di più di un semplice trofeo; era un simbolo di unione per il popolo italiano, e Zoff divenne un simbolo di orgoglio nazionale. Le immagini di lui al fianco di Sandro Pertini e all'allenatore, Enzo Bearzot mentre festeggiavano insieme, restano impresse nella memoria collettiva, rappresentando un periodo di grande gioia e unità. Dopo aver chiuso le porte di un'illustre carriera da calciatore, terminata nel 1983 dopo la sconfitta ad Atene contro l'Amburgo nella finale di Coppa dei campioni, Dino Zoff ha intrapreso un cammino da allenatore, inizialmente con la Juventus e poi guidando la Nazionale italiana e contribuendo a preparare le future generazioni. Tuttavia, la sua avventura sulla panchina della Nazionale è stata segnata da una dose di sfortuna: nel 2000, la squadra era in vantaggio nella finale degli Europei, ma subì un drammatico pareggio negli istanti conclusivi si vide soffiare la coppa al golden goal dalla Francia. Nonostante il rammarico di quell'episodio, Zoff continuò a dare il suo contributo, allenando con grande competenza la Lazio e ponendo le basi per una squadra di successo in quelle che furono poi le stagioni dei successi di Sven Goran Eriksson. La carriera da tecnico terminò con la Fiorentina. Se vogliamo parlare di un rammarico posso dire che nella carriera di Zoff ci poteva stare l'incarico di dirigente accompagnatore della nazionale o della Federazione italiana gioco calcio che a mio avviso avrebbe meritato. 

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L'Intelligenza artificiale nella medicina: un futuro promettente per la salute dei cittadini

di PIERANTONIO LUTRELLI - Negli ultimi anni, l'intelligenza artificiale (AI) ha compiuto significativi progressi, portando innovazioni che stanno rivoluzionando il settore medico. Questa evoluzione scientifica  sta attivamente rimodellando il panorama della medicina moderna, portando a diagnosi più accurate, trattamenti personalizzati e una gestione più efficiente delle risorse sanitarie. Grazie a queste innovazioni, la salute dei cittadini è sempre più nelle mani di tecnologie avanzate che promettono un futuro migliore e più sano per tutti. L'adozione dell'AI nella medicina - a mio modesto parere - non è solo una tendenza, ma una necessità per garantire servizi sanitari di qualità e accessibili a tutti. Da strumenti di diagnosi precoci a piattaforme di telemedicina, l'AI si sta rivelando un alleato prezioso per migliorare la salute dei cittadini. Questa tecnologia non solo rende più efficienti le pratiche sanitarie, ma offre anche opportunità per personalizzare i trattamenti e migliorare la gestione delle malattie. Ma in che modo l'AI sta realmente influenzando la medicina al giorno d'oggi? Esploriamo insieme alcuni esempi concreti. Uno degli utilizzi più promettenti dell'AI in medicina è rappresentato dalla diagnosi precoce. Attraverso algoritmi avanzati, l'AI è in grado di analizzare enormi quantità di dati provenienti da immagini mediche, come radiografie e risonanze magnetiche. Ad esempio, la ricerca di Google Health ha dimostrato che l'AI può superare i radiologi umani nella capacità di individuare segni precoci di tumori al seno, contribuendo ad aumentare le possibilità di diagnosi tempestiva e di successo nel trattamento. La telemedicina ha guadagnato un'attenzione crescente, specialmente a seguito della pandemia. Gli assistenti virtuali alimentati da AI offrono supporto ai pazienti rispondendo a domande sanitarie e fornendo informazioni personalizzate. Utilizzando sistemi di triage basati su AI, i pazienti possono ricevere un'analisi preliminare dei loro sintomi, indirizzandoli verso le corrette consultazioni mediche e contribuendo a ridurre il carico sugli ospedali. Altro aspetto non di poco conto è la capacità di personalizzare i trattamenti cosa che sta ridefinendo la medicina moderna. Con l'analisi dei dati genetici e clinici, l'AI consente ai medici di creare piani di trattamento su misura per ogni paziente. In oncologia, ad esempio, i sistemi decisionali basati su AI possono raccomandare terapie target che aumentano le probabilità di successo, analizzando dati clinici, risposte precedenti ai trattamenti e informazioni biologiche. L' AI gioca un ruolo cruciale anche in ambito delle  malattie croniche le quali richiedono un monitoraggio costante. Tecnologie di monitoraggio remoto e applicazioni per smartphone aiutano i pazienti a gestire patologie come il diabete. Grazie a dispositivi indossabili, l'AI analizza i dati in tempo reale, fornendo feedback e avvisi importanti ai pazienti e ai professionisti sanitari, garantendo che le anomalie siano gestite tempestivamente. L'AI sta anche accelerando la ricerca e lo sviluppo di farmaci. Analizzando relazioni complesse tra molecole e loro effetti, gli algoritmi di AI possono identificare potenziali nuovi farmaci in tempi significativamente ridotti. Durante la pandemia di COVID-19, ad esempio, tali tecnologie hanno facilitato la scoperta di trattamenti e vaccini, dimostrando la loro efficienza nel contesto emergenziale. Oltre agli aspetti clinici, l'AI contribuisce a migliorare l'efficienza operativa nelle strutture sanitarie. Analizzando dati relativi al flusso dei pazienti, alla disponibilità di posti letto e alla gestione delle forniture, i sistemi di AI ottimizzano le operazioni quotidiane, permettendo una migliore gestione delle risorse e una riduzione delle attese. Infine, l'AI gioca a mio avviso anche un ruolo importante nell'educazione dei pazienti. Attraverso chatbot e piattaforme digitali, questa tecnologia offre informazioni e consigli personalizzati per promuovere una maggiore consapevolezza sulla salute, aiutando i cittadini a prendere decisioni più informate e responsabili.

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Il '94 rivisitato: un'analisi sincera della finale mondiale

di PIERANTONIO LUTRELLI- Nel 1994, l'Italia raggiunse la finale dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti, un traguardo che molti considerano un miracolo sportivo. La squadra, guidata da Roberto Baggio, noto come il "Divin Codino", si presentò alla sfida contro il Brasile carica di entusiasmo, ma la partita si rivelò un’odissea. Il Brasile vinse la finale ai calci di rigore, e fu proprio Baggio a sbagliare l'ultimo penalty, un momento che rimarrà per sempre impresso nei cuori degli italiani. Tuttavia, è importante contestualizzare questo evento: Baggio era reduce da un infortunio che comprometteva la sua prestazione. La sua assenza in forma completa - un eufemismo - si fece sentire, e la vittoria ci sfuggì di mano. In panchina c'era Arrigo Sacchi. Molti sostengono che con Fabio Capello al suo posto la coppa sarebbe potuta essere nostra. Capello, noto per la sua capacità di organizzare e motivare le squadre, avrebbe potuto apportare scelte strategiche diverse, inclusa la gestione degli infortuni e delle sostituzioni. Inoltre, il Brasile che ci affrontò non era il miglior Brasile di sempre. Pur avendo una grande tradizione, la squadra mostrò un gioco meno brillante e tecnico di quanto ci si aspettasse. Se l'Italia avesse potuto contare su una formazione al completo, con Baggio in forma e una panchina strategicamente robusta, il risultato finale potrebbe essere stato ben diverso. E' giusto ricordare che le responsabilità di una sconfitta in una finale non possono essere attribuite a un singolo errore o una singola persona. Ci furono scelte tattiche e decisioni che influenzarono il corso della partita, e la sconfitta ai rigori è solo un capitolo in una storia molto più complessa. Beppe Signori è stato uno dei migliori attaccanti italiani degli anni '90, noto per il suo fiuto per il gol e la sua abilità nei calci di rigore. Durante le stagioni 1992-93 e 1993-94, è stato capocannoniere della Serie A con la Lazio, contribuendo significativamente ai successi della squadra. Nonostante il suo talento, Signori non venne schierato neanche in uno dei 120 minuti della lunghissima finale del Mondiale '94. In quella partita cruciale contro il Brasile, l'assenza di un rigorista esperto come lui si fece sentire, soprattutto dopo l'errore di Roberto Baggio. Molti tifosi e commentatori ritengono che l'inserimento di Signori avrebbe potuto cambiare le sorti della finale, dando all'Italia una chance in più per vincere il titolo. Dissento pertanto da quanto Arrigo Sacchi ha recentemente affermato a Fanpage "che la paura di Silvio Berlusconi abbia influito sulla nostra sconfitta ai Mondiali del '94,perché Berlusconi faceva paura", ma questa lettura della situazione merita un'analisi più approfondita. A mio avviso le ragioni della nostra non vittoria sono da ricercare esclusivamente in motivazioni tecnico-calcistiche. In quel torneo, l'Italia ha affrontato diverse sfide, tra cui l'infortunio di Roberto Baggio, il nostro giocatore di punta, che si presentò in finale con un problema fisico che ne limitò le prestazioni. Inoltre, la gestione delle sostituzioni e delle scelte tattiche da parte dello staff tecnico giocarono un ruolo cruciale. La decisione di non schierare un rigorista esperto come Beppe Signori, capocannoniere della Serie A, è un esempio lampante di come le scelte in campo possano avere un impatto determinante sul risultato finale. Pertanto, è importante riconoscere che la sconfitta in quella finale non può essere attribuita a fattori esterni o politici, ma piuttosto a dinamiche interne alla squadra e alle scelte fatte durante il torneo. La storia del '94 deve essere vista attraverso la lente delle prestazioni sportive e delle decisioni tecniche, piuttosto che essere influenzata da narrazioni che mescolano sport e politica. 

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Restiamo umani

di PIERANTONIO LUTRELLI - Oggi si osserva un'importante tendenza verso l'umanoidizzazione. Robot sempre più simili agli esseri umani stanno diventando una realtà. La prospettiva di avere robot domestici o camerieri nei ristoranti suscita ammirazione, ma anche timore. Entro dieci anni, potremmo vederli in ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Questo transumanesimo può rappresentare un'opportunità per migliorare l'efficienza e la qualità della vita. Tuttavia, è fondamentale che l'intelligenza artificiale e i robot aiutino gli esseri umani senza sostituirli. Dobbiamo mantenere il nostro valore umano, la nostra empatia e le nostre capacità uniche. La chiave è trovare un equilibrio tra tecnologia e umanità. La tecnologia, quando utilizzata correttamente, può essere uno strumento potente per migliorare la nostra vita. Può semplificare compiti ripetitivi, consentire una migliore comunicazione e persino aprire nuove frontiere nella medicina e nell'istruzione. Tuttavia, il rischio di diventare troppo dipendenti da essa può portare alla perdita di alcune delle qualità che ci rendono umani. Uno degli aspetti più preziosi della nostra umanità è la capacità di provare empatia e di interagire con gli altri in modo significativo. I robot, per quanto avanzati, non possono replicare totalmente queste capacità. Le emozioni umane e la comprensione profonda sono il frutto di esperienze vissute, qualcosa che le macchine non possono acquisire. La creatività è un'altra area in cui gli esseri umani eccellono. Mentre le intelligenze artificiali possono analizzare dati e generare soluzioni basate su modelli esistenti, la vera innovazione spesso nasce dalla capacità di pensare fuori dagli schemi. Gli esseri umani hanno la capacità di sognare, immaginare e creare in modi che le macchine non possono eguagliare. Con l'avanzare della tecnologia, diventa cruciale affrontare le questioni etiche e di responsabilità. Chi è responsabile delle decisioni prese da un'intelligenza artificiale? Come possiamo garantire che le tecnologie siano utilizzate per il bene comune e non per scopi dannosi? Per mantenere un equilibrio tra tecnologia e umanità, è essenziale investire nell'educazione e nella formazione. Le nuove generazioni devono essere preparate a interagire con la tecnologia in modo consapevole e responsabile, sviluppando al contempo le proprie capacità uniche come la creatività, l'empatia e il pensiero critico. La collaborazione tra esseri umani e macchine può portare a risultati straordinari. Invece di temere la sostituzione, dovremmo vedere la tecnologia come un partner che può amplificare le nostre capacità. I robot possono aiutarci a svolgere compiti ripetitivi o pericolosi, permettendoci di concentrarci su attività che richiedono un tocco umano. Un equilibrio che vedo minacciato a vantaggio di chi pilota la sostituzione delle persone in carne ed ossa con i robot. Restiamo umani.

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Un viaggio commovente nel Ghetto Ebraico di Roma: l’incontro con le Pietre d’inciampo

di PIERANTONIO LUTRELLI - Durante una recente visita a Roma, ho avuto l'opportunità di esplorare il Ghetto Ebraico, un luogo carico di storia e memoria. Questo quartiere non è solo un simbolo della lunga presenza ebraica nella capitale italiana, ma anche un luogo di commemorazione per le terribili tragedie subite dalla comunità ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale. Passeggiando per le strade acciottolate del ghetto, sono rimasto profondamente colpito dalle pietre d’inciampo. Queste piccole targhe di ottone, inserite nel selciato davanti alle ultime abitazioni conosciute delle vittime del nazismo, sono state create dall'artista tedesco Gunter Demnig. Ogni pietra è un memoriale dedicato a una singola persona, con inciso il nome, la data di nascita e il destino tragico di coloro che furono deportati e uccisi nei campi di concentramento nazisti. In particolare, mi sono soffermato davanti alle pietre che commemorano: Lazzaro Moscato, nato nel 1900, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Giuseppe Moscato, nato nel 1926, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Bruno Anselmo Moscato, nato nel 1930, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Chiara Limentani, nata nel 1919, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944; Emilia Pavoncello, nata nel 1914, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944; Mario De Vito, nato nel 1912, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944 ed Emma De Vito, nata nel 1913, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944. Trovarsi di fronte a queste pietre è stato un momento di profonda riflessione e commozione. Ognuna racconta una storia di vita spezzata, una famiglia distrutta, un futuro mai realizzato. Camminare su queste strade e leggere i nomi, spesso accompagnati dalle date di nascita di bambini, è un promemoria potente della brutalità della storia, ma anche della resilienza e della dignità delle vittime e dei sopravvissuti. Il Ghetto Ebraico di Roma, con le sue struggenti pietre d’inciampo, non è solo un luogo di memoria storica, ma anche un monito contro l'odio e l'intolleranza. È un invito a ricordare e a non dimenticare mai, affinché simili atrocità non si ripetano. Scrivere questo articolo è stato per me un modo per onorare quelle vite e condividere con gli altri l’importanza di mantenere viva la memoria. Invito tutti a visitare il Ghetto Ebraico di Roma e a dedicare un momento di riflessione davanti a queste pietre, per ricordare le vittime dell’Olocausto e sottolineare l’importanza della memoria storica.

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Totò Schillaci, quei 15 minuti che lo hanno consegnato alla storia

di PIERANTONIO LUTRELLI - La recente scomparsa di Totò Schillaci ha colpito il cuore di molti, non solo per la sua carriera calcistica, ma per il suo essere una persona normale, un uomo tra la gente, che ha affrontato la malattia in un ospedale pubblico di Palermo. La sua vita, spezzata da un tumore al colon, continua a suscitare emozione e nostalgia, dimostrando che, a volte, le storie più toccanti non appartengono solo ai grandi nomi, in quanto tali, ma a chi ha saputo conquistare il pubblico con autenticità e umanità. Totò Schillaci non era un fuoriclasse preconizzato. Era un ragazzo di Palermo, un esempio di come lo sport possa rappresentare la via di fuga da una vita di difficoltà e degrado. La sua ascesa nel mondo del calcio è simbolica delle speranze e dei sogni di una generazione intera. Nel 1990, quando il mondiale si svolse in Italia, lo sport e la nazionale rappresentavano un'opportunità di riscatto per molti giovani, e Schillaci si trovò a interpretare un ruolo da protagonista in un momento che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Ricordo con vividezza quei mondiali e l'aspettativa che circondava la nostra nazionale, composta da nomi illustri come Baggio, Vialli e Mancini. Ma fu un'azione inaspettata a cambiare il corso della storia. Dopo un deludente pareggio con l'Austria, il commissario tecnico Azeglio Vicini decise di scommettere su di lui, gettandolo nella mischia al 75º minuto. Tre minuti più tardi, al 78º, un cross perfetto di Gianluca Vialli dalla destra trovò Totò pronto a colpire di testa. Un gesto semplice, ma carico di significato: 1-0 e l'Italia era di nuovo in corsa. Quella rete non fu solo un gol, ma il simbolo di una vittoria più grande. Totò Schillaci divenne l'orgoglio di una nazione, un eroe per il Sud, per la Sicilia e per tutti coloro che si riconoscevano nella sua storia di riscatto. Con il suo sorriso e la sua spontaneità, riuscì a conquistare i cuori di milioni di italiani. Non era solo un calciatore, ma un rappresentante di una generazione che sognava e credeva che tutto fosse possibile. La sua performance nel torneo fu straordinaria: 6 reti e il titolo di capocannoniere. Ma, al di là dei numeri, ciò che rimane è il ricordo di quei 15 minuti che lo hanno consacrato. Schillaci ha dimostrato che a volte, in un momento di difficoltà, basta un attimo per cambiare il proprio destino, per diventare parte della storia. La sua capacità di empatizzare con il pubblico ha reso il suo nome sinonimo di passione e determinazione. Oggi, mentre piangiamo la sua scomparsa, ricordiamo che Totò non è solo un nome che passa nel silenzio della storia. La sua eredità vive in ogni tifoso, in ogni giovane che sogna di calcare il campo da calcio, in ogni persona che trova conforto e ispirazione nella sua storia. La poesia del calcio trionfa sul silenzio: Totò Schillaci è e rimarrà sempre vivo nei cuori di tutti noi.

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L'importanza dell'equità finanziaria nella politica elettorale

di PIERANTONIO LUTRELLI - La politica non sia appannaggio esclusivo dei ricchi, ma una vera e propria opportunità per tutti. Purtroppo nella contemporaneità, affrontare una carriera politica di alto livello richiede non solo un impegno significativo, ma anche l'accesso a risorse finanziarie considerevoli per condurre una campagna elettorale efficace. Non vi è dubbio che questa realtà genera una disparità di opportunità che impedisce a individui con grandi idee, ma limitate risorse, di candidarsi per posizioni di rilievo come la carica di sindaco in una grande città o di presidente di una regione. Questa tendenza, in cui la politica sembra essere riservata solo ai ricchi, solleva a mio avviso la necessità di una riforma che assicuri un finanziamento equo per tutti i candidati, consentendo così una partecipazione democratica più inclusiva. La campagna elettorale richiede una serie di attività e risorse, dalle tradizionali manifestazioni pubbliche ai santini elettorali, ai manifesti, fino alle spese per gli eventi e i collaboratori. Tutta una serie di “spese vive”. Orbene, tutto ciò genera un considerevole onere finanziario che non tutti possono sostenere. Questo scenario crea una barriera per l'accesso alla politica per coloro che non dispongono di risorse finanziarie adeguate, limitando la diversità di idee e prospettive che potrebbero arricchire il dibattito politico.La mia proposta: una legge per l'equità finanziaria dei candidati

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Paulo Roberto Falcao: l'artefice del risveglio della Roma negli anni '80

di PIERANTONIO LUTRELLI - Gli anni '80 sono stati un periodo d'oro per il calcio italiano, e per me sono stati gli anni in cui ho iniziato a capire cosa significasse davvero questo sport. Il primo campionato che ho seguito con passione è stato quello del 1980-81, un'annata che ha segnato l'inizio di una nuova era per la Roma, guidata dall'allenatore svedese Nils Liedholm. La Roma, fino all'anno precedente, era sempre stata considerata una squadra di media classifica, ma in quell'anno qualcosa stava per cambiare. La Figc decise di aprire le frontiere, permettendo ai club di acquistare calciatori stranieri. Fu in questo contesto che la Roma si distinse, acquistando il brasiliano Paulo Roberto Falcao, un giocatore relativamente sconosciuto in Europa, ma che gli astuti osservatori della Roma - guidata dal grande presidente Dino Viola -avevano individuato in Brasile. Ed è proprio a lui che dedico questo post in occasione del suo settantesimo compleanno, avvenuto lo scorso 16 ottobre. Falcao aveva 27 anni, ma un'esperienza da veterano e una classe immensa. Nel centrocampo, conferiva sicurezza a tutta la squadra e in poco tempo divenne l'uomo di fiducia dell'allenatore. "È Falcao che dirige l'orchestra in campo. Io, al massimo, qualche volta gli scrivo la musica o arrangio lo spartito seguendo certe idee", diceva a quei tempi il compianto Liedholm, rendendo molto bene l'idea. Era un calciatore completo: ambidestro, forte di testa, dotato di grandi doti nel dribbling, ottimo controllo di palla. Sapeva proteggere la difesa facendo il difensore aggiunto ed allo stesso tempo attaccare. Aveva visione di gioco e capacità di finalizzare goal importanti. Indossava la maglia numero 5, un numero solitamente assegnato agli stopper, ma lui, che non era uno stopper, l'aveva scelto come suo distintivo personale. Dimostrando anche qui di essere molto avanti con i tempi. Ancora oggi, quando vedo un calciatore della Roma con la maglia numero 5, mi emoziona pensare che quella sia stata la maglia di Falcao. Il calciatore brasiliano di Porto Alegre fu così abile nel cambiare la mentalità della squadra e nel farla crescere, che la Roma iniziò subito a lottare per lo scudetto, e ci riuscì quasi. Fu solo per un goal annullato di Turone che la Juventus riuscì a sancire la sua vittoria, poiché nello scontro diretto alla penultima giornata di campionato la partita finì a zero a zero tra le polemiche che non si placano nonostante siano passati 43 anni. A fine stagione, la Juve terminò con 44 punti e la Roma con 42 punti. Falcao si era guadagnato l'appellativo di "Ottavo Re di Roma" e aveva infuso un grande entusiasmo in tutta la città. Per lo scudetto bisognerà attendere il 1983, ma la cosa che più mi ha colpito è che quando lui era in campo, tutti noi bambini che tifavamo per la squadra, ci sentivamo parte di qualcosa di più grande. Era un qualcosa che andava oltre il calcio. Aveva il sapore del riscatto. Vincere in maniera non facile, non scontata, ha un sapore molto più importante di quando si è abituati a vincere sempre e a vincere facilmente. Fu proprio da bambino seguendo la Roma che mi accorsi di non essere "vincentista". Paulo Roberto Falcao era il rappresentante di un mondo povero veniva da quel sud del mondo, ma aveva saputo riscattarsi e portare una squadra non abituata a vincere sul tetto d'Italia e d'Europa.

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Giorgia Meloni: Un plauso alla determinazione e al coraggio della premier

di PIERANTONIO LUTRELLI - Giorgia Meloni, la prima donna nella storia della Repubblica Italiana a ricoprire la carica di premier, merita un plauso per la sua determinazione e il suo coraggio nel prendere una decisione difficile nella sua vita personale: dichiarare finita la relazione con il giornalista milanese Andrea Giambruno padre di sua figlia Ginevra di 7 anni. Nonostante le sue umili origini e le sfide che ha affrontato lungo il suo percorso, Meloni ha dimostrato di essere una figura di grande risolutezza. Come quando disse a Berlusconi “Non sono ricattabile”. In un mondo dove spesso le figure politiche si nascondono dietro le convenzioni e le apparenze, Meloni si distingue per la sua autenticità e la sua volontà di affrontare le difficoltà senza paura. La sua carriera politica è un esempio di come la determinazione e il decisionismo possono portare a risultati straordinari. Nonostante le limitazioni economiche e la mancanza di opportunità che caratterizzavano la sua famiglia di origine (ha iniziato a lavorare presto e non ha fatto l’università, pur essendo la prima della classe nei 5 anni di Liceo linguistico frequentati) Meloni è riuscita a diventare la leader del suo partito, Fratelli d'Italia, vincendo la competizione interna e portandolo a diventare il primo partito della coalizione di centrodestra diventata maggioranza di governo. Il suo ingresso a Palazzo Chigi è stato infatti il risultato di un percorso di successo basato su una visione politica forte e una volontà incrollabile. Nonostante le critiche e le sfide, Meloni ha dimostrato di non essere ricattabile, come ha ribadito in passato, e ha fatto della sua determinazione una caratteristica centrale della sua leadership. Ha preso una decisione coraggiosa nella sua vita privata, decidendo di lasciare il suo compagno. Questa scelta è stata accompagnata da infelici episodi fuori onda di cui Giambruno – giornalista Mediaset – si è reso protagonista durante le pause del suo programma che conduceva (già conduceva) su Rete4. Questi fuori onda sono stati registrati e riproposti dal programma anch’esso in onda sulle reti Mediaset, in questo caso Canale5, Striscia la notizia. Nonostante il dolore e la difficoltà che questa situazione comporta, Meloni ha deciso di affrontare pubblicamente la vicenda, mostrando la sua coerenza. Al di là delle opinioni politiche, è importante riconoscere la forza e il coraggio di Giorgia Meloni nel prendere una decisione difficile. Proprio per queste ragioni la sua determinazione nel perseguire i suoi obiettivi politici e il suo coraggio nel fronteggiare le sfide personali sono meritevoli di plauso.

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La politica non dovrebbe essere una professione

di PIERANTONIO LUTRELLI - Nel contesto politico attuale, emerge una critica che mette in discussione l'idea che l'impegno politico debba coincidere con la vita fisica di un individuo. Questo articolo mira a esplorare tale questione, sottolineando la necessità di un rinnovamento per promuovere il coinvolgimento di nuove figure nella sfera politica.

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Nel nome di Verona, si intrecciano le storie di Tommasi e Volpati. Ex calciatori, uno è sindaco, l'altro medico dentista

di PIERANTONIO LUTRELLI - Verona, una città ricca di storia e di storie che si intrecciano. In questa affascinante cornice, due nomi emergono come simboli di integrità e talento: Damiano Tommasi e Domenico Volpati. Nonostante le loro diverse sfere d'azione, e la diversa generazione, entrambi rappresentano l'eccellenza e l'impegno sia durante la vita da calciatori e sia dopo. Domenico Volpati, nato a Novara il 19 agosto 1951 ha giocato nell’Hellas Verona dal 1982 al 1988. Ha lasciato un segno indelebile nel calcio veronese, ovviamente e soprattutto grazie al fatto che è stato tra i vincitori dello scudetto nel 1985. Era il mitico Verona allenato da Osvaldo Bagnoli che predicava catenaccio e verticalizzazioni improvvise che davano vita a contropiedi micidiali. A vittorie inaspettate. In quell’anno tutti fecero i conti con il Verona. Erano gli anni del libero staccato dietro la difesa. Erano gli anni in cui il calcio aveva ancora il sapore nostrano della fatica e della normalità. Il calcio che sfornava fuoriclasse all’oratorio e nei campi sterrati della provincia italiana. In questo contesto il nostro Volpati ha mostrato una dedizione inesauribile verso il calcio. Nonostante fosse già un veterano a 34 anni, ha vinto lo scudetto con la squadra scaligera, dimostrando che l'età è solo un numero quando si è guidati dalla passione e dalla determinazione. La sua presenza in campo era sinonimo di esperienza e saggezza, un faro per i giovani talenti che lo circondavano. E in quegli anni, a 34 anni si era dei “vecchietti” a fine carriera. Volpati aveva forza ed energia. Era un mediano difensivo senza pretese apparentemente, ma invece si fece valere. A differenza di molti ex calciatori non ha avuto uno sbocco nel mondo del calcio. Ha invece deciso di laurearsi in medicina, e poi specializzandosi in odontoiatria, si è trasferito a Termeno in provincia di Bolzano dove per 28 anni ha svolto l'attività di dentista fino al 2019. Ma un medico lo è per tutta la vita. Così nel 2021, vista la necessità di medici vaccinatori per la pandemia in atto, ha ripreso volontariamente il servizio presso il centro vaccinale sul Lago di Tesero. Damiano Tommasi, invece, ha lasciato il suo segno sia nel mondo del calcio che nella sfera politica. Nato a Negrar di Valpolicella il 17 maggio 1974 a 12 Km da Verona, dopo una brillante carriera da calciatore, coronata dal titolo di campione d'Italia con la Roma nel 2001, ha deciso di intraprendere una nuova sfida: la politica. Il suo impegno e la sua dedizione lo hanno portato nel 2022 a sconfiggere con il 53% dei voti al ballottaggio, il sindaco uscente Federico Sboarina, avversario di centrodestra nelle elezioni comunali di Verona, diventando a sua volta il sindaco della città. La sua integrità e la sua passione per il servizio pubblico sono un esempio per tutti coloro che credono nel potere del cambiamento e dell'onestà. In precedenza, aveva svolto il ruolo di presidente nazionale dell’Associazione Italiana calciatori, carica detenuta per molti anni dal mitico Sergio Campana. Tommasi nel campionato 2000-2001, quello dello scudetto con Fabio Capello, fece una stagione strepitosa. Fu il migliore della Roma per rendimento, correva, rubava palloni, costruiva, faceva goal, assist, spogliatoio, gruppo e tutto questo con la serietà che in un ragazzo di 27 anni sorprendeva. Un ragazzo pulito. Una persona che al solo guardarlo in faccia ti ispirava fiducia. Di quelli a cui lasceresti le chiavi di casa senza pensarci due volte appena lo conosci. Di quelli che pur potendosi permettere tutto ha mantenuto i piedi per terra. E oggi alla soglia dei cinquant’anni è un marito e un padre premuroso con i suoi sei figli. Soprattutto un sindaco attento. Nella terra di Zaia, in cui la Liga è fortissima, solo una persona brava e famosa come il Damiano romanista poteva far vincere il centrosinistra alle comunali. Bella storia. Se da sindaco mostra la stessa correttezza e serietà che ha adottato in campo, i cittadini possono dormire sonni tranquilli. Volpati e Tommasi, Domenico e Damiano, due ragazzi della provincia italiana che nella vita hanno dimostrato che pur amando il calcio visceralmente, si possa andare oltre e servire il prossimo con onestà e versatilità anche in altri ambiti. In entrambi questi uomini, l'impegno, la dedizione, l'integrità e il rispetto sono cardini fondamentali della loro esistenza. Sia Volpati che Tommasi hanno dimostrato di essere non solo grandi talenti nelle rispettive aree di competenza, ma anche persone di grande umanità e generosità. Entrambi hanno messo il loro talento e la loro passione al servizio della comunità. Tante similitudini fra i due: Volpati non è di Verona ma ha vinto lo scudetto a Verona, Tommasi che è di Verona ha vinto lo scudetto a Roma, ma a Verona è tornato a fare il sindaco. Due bravi ragazzi talentuosi e di fatica, seri e rispettosi del prossimo, persone perbene e vere perle della storia del nostro calcio. In una sola parola: un esempio.

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Il calcio come veicolo di socializzazione, riscatto e unione nazionale: l'arte cinematografica di Paolo Sorrentino e l'esultanza di Sandro Pertini

di PIERANTONIO LUTRELLI - Il calcio rappresenta un grande veicolo di socializzazione, riscatto e unione nazionale. Va oltre il rettangolo di gioco. Molto oltre. Finisce ovunque. Anche al cinema di qualità. Basti pensare a Paolo Sorrentino, regista napoletano e grande tifoso di Maradona, che ha dedicato il suo film del 2021 "È stata la mano di Dio" al leggendario calciatore argentino. Questa pellicola, presentata alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, racconta la storia di una giovane promessa del calcio napoletano e celebra l'importanza del calcio nella vita delle persone. Il calcio è immenso. Basta ricordare che un momento significativo che ha dimostrato il potere di questo sport di unire il popolo italiano è stata la vittoria della Nazionale italiana nel Mondiale del 1982. Durante la finale al Santiago Bernabeu di Madrid, il Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, un ex partigiano e uomo di sinistra, ha esultato con entusiasmo per la vittoria dell'Italia per 3-1 contro la Germania. Quel gesto ha dimostrato come il calcio possa superare le differenze ideologiche e creare un senso di unità nazionale. Il calcio non è solo una distrazione, ma un mezzo di socializzazione e riscatto. Durante le grandi competizioni internazionali, come i Mondiali, le persone di diverse estrazioni sociali e politiche si ritrovano unite nello stesso entusiasmo e nella stessa passione per la propria nazionale. Questo sport è in grado di superare le divisioni e creare un senso di appartenenza e solidarietà. Tornando a Sorrentino, con la sua abilità cinematografica, ha catturato l'essenza di questa passione calcistica e ha trasferito emozioni profonde attraverso il suo film. Ha dimostrato come il calcio possa essere un veicolo di riscatto e unione, celebrando l'eredità di Maradona e il suo impatto sulla società e sul calcio italiano. Non vi è dubbio alcuno che il calcio rappresenta molto più di uno sport. Il film di Paolo Sorrentino "È stata la mano di Dio" e l'esultanza di Sandro Pertini nel Mondiale del 1982 sono esempi di come il calcio possa superare le barriere sociali e politiche, unendo le persone in momenti di gioia e coesione nazionale.

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Il potere del segretario nazionale: il sistema elettorale italiano e la mancanza di autonomia alla base dei partiti

di Pierantonio Lutrelli - Negli ultimi anni, è emerso un fenomeno preoccupante all'interno dei partiti politici italiani: la tendenza a evitare di scontentare il segretario nazionale. Questo accade perché coloro che si mettono contro il leader rischiano di essere esclusi dalle future candidature. Questo sistema ha radici profonde nel contesto elettorale italiano, caratterizzato da liste bloccate senza preferenze e collegi uninominali, dove il potere decisionale si concentra principalmente nelle mani dei leader e della capitale, Roma. Dall'entrata in vigore del sistema elettorale attuale nel 2006, (da Porcellum a Rosatellum cambia solo la quota marginale dei collegi) la voce dei cittadini all'interno dei partiti politici è stata notevolmente ridimensionata. La base ha poco o niente potere decisionale sulle scelte e sulle candidature, mentre i leader nazionali e i vertici dei partiti hanno il controllo quasi totale sul processo decisionale. Questa situazione solleva una serie di interrogativi sul funzionamento della democrazia interna ai partiti. Sebbene sia importante che i partiti siano organizzati e guidati da una leadership forte, è altrettanto fondamentale garantire la partecipazione attiva dei membri e la possibilità di influenzare le decisioni. Tuttavia, nel sistema attuale, la voce dei membri di base viene spesso soffocata da una cultura di conformità e obbedienza nei confronti del segretario nazionale. La ragione principale per cui questo sistema è ben accetto da tutti è la mancanza di incentivi per cambiare. I vertici dei partiti, inclusi i segretari nazionali, beneficiano enormemente da un sistema che consolida il loro potere e limita la concorrenza interna. Il mantenimento dello status quo garantisce loro un controllo stabile e una maggiore sicurezza nelle future elezioni. Tuttavia, questa situazione limita la rappresentatività dei partiti e sminuisce il ruolo dei membri di base. L'assenza di meccanismi di selezione democratica per le candidature può portare a una mancanza di diversità e ad una scarsa rappresentanza dei vari interessi all'interno dei partiti. Ciò può indebolire la democrazia interna e minare la fiducia dei cittadini nella politica. Per superare questa situazione, sarebbe necessario un cambiamento radicale nel sistema elettorale italiano, con l'introduzione di meccanismi di selezione delle candidature più inclusivi e trasparenti. Inoltre, sarebbe importante promuovere una cultura politica che valorizzi la partecipazione attiva dei membri di base e incoraggi la diversità di opinioni e la competizione interna. Il sistema elettorale italiano, con le sue liste bloccate senza preferenze e i collegi uninominali, contribuisce a creare un ambiente in cui i membri dei partiti tendono a evitare di scontentare il segretario nazionale per non compromettere le proprie opportunità di candidatura. Ciò limita la democrazia interna e la rappresentatività dei partiti, e richiede un dibattito approfondito sulla necessità di riforme per garantire una maggiore partecipazione e un sistema politico più inclusivo. 

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Perché Neymar per me è il Numero 1

di PIERANTONIO LUTRELLI - Un calciatore deve infiammare il pubblico. Neymar ne è capace. Tutti noi quando abbiamo iniziato a giocare a calcio abbiamo sempre ammirato i più bravi tecnicamente. Quelli capaci di dare del tu alla palla. Chiaro che il calcio è un gioco collettivo. I tanti interessi economici che vi ruotano intorno impediscono a volte di prediligere aspetti romantici. A me piace immaginare un calcio che forse non esiste più. Non importa. Contano i risultati di bilancio. Le bacheche. Le vittorie. Certo. Al pubblico che corre allo stadio o si abbona alle payTv nessuno ci pensa. I tifosi esultano e festeggiano solo se si vince. Legittimo. Sarà che sono tifoso di una squadra, la Roma, che vince poco - pochissimo direi - ma da sempre ho orientato la mia visione del calcio sullo spettacolo che questi è capace di offrire. A quello che può dare anche senza un campionato o una coppa vinta. Mi annoio quando una gara annoia. Non ci posso far nulla. Mi sono divertito di più con la Roma di Totti e Cassano senza trofei che con l'Italia vincitrice del mondiale del 2006. Neymar, per tornare a lui, rappresenta questa filosofia: il fuoriclasse che rende felici le persone che hanno pagato il biglietto. Devo essere sincero ne ho visti tanti di fenomeni, ce ne sarebbero e un giorno ne parliamo, ma come questo calciatore pochi. Eppure Maradona l'ho visto giocare, Ronaldo il fenomeno anche. Messi in tv. Ronaldinho mi piaceva molto non c'è dubbio. Mi piaceva Zidane, anche più di Totti. Ecco l'ho detto. Il Brescia di Roberto Baggio era fantastico. Non ha vinto niente, ma aveva una magia. Un perché. Il Brasile sempre. Tranne quello del '94 eppure ha vinto la Coppa del Mondo. Romario era accettabile, Bebeto era improponibile. Altra storia il Brasile 1982. L'Italia fantastica li ha battuti 3-2. Un sogno. Quel Brasile aveva una flotta di centrocampisti assortiti da paura: Socrates, Falcao, Cerezo, Junior, Zico ed Eder. Fate voi che squadrone. Vi invito a guardare Neymar nei particolari. E' furbo. Non subisce facilmente fallo. Gioca la palla a terra e salta 6-7 avversari come birilli. Forte fisicamente al punto da non temere falciate alcune. Uno spettacolo.

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Carlo Ancelotti, un allenatore leggendario

Carlo Ancelotti, l'attuale allenatore del Real Madrid, è una figura iconica nel mondo del calcio. La sua lunga e vincente carriera, che lo ha visto guidare i più prestigiosi club europei, dimostra che l'età anagrafica non è un fattore determinante per essere un allenatore moderno e di successo. Ancelotti, nato il 10 giugno, (come me!) del 1959 continua a dimostrare la sua passione e dedizione in una nuova avvincente stagione alla guida del Real Madrid. Nonostante non abbia più “fame” di vittorie continua a mietere successi.  Ancelotti ha dimostrato di essere un allenatore moderno e all'avanguardia, capace di adattarsi e evolversi nel corso degli anni. Ha imparato a conoscere il calcio in diverse realtà geografiche, arricchendo il suo bagaglio tattico e strategico. Ancelotti ha acquisito una mentalità moderna grazie all'influenza di grandi allenatori come Nils Liedholm, Arrigo Sacchi e Fabio Capello che lo hanno guidato nel suo percorso. Prima di intraprendere la carriera di allenatore, Ancelotti ha brillato anche come giocatore. Durante il suo periodo alla Roma, è stato un centrocampista generoso ed infaticabile. Ha fatto parte di uno dei reparti di centrocampo più forti di sempre, insieme a Conti, Falcao e Cerezo. Insieme, hanno portato la Roma in finale di Coppa dei Campioni, lasciando un segno indelebile nella storia del club. Ancelotti ha vissuto un momento cruciale nella sua carriera quando, all'età di 22 anni, ha subìto un grave infortunio al ginocchio durante una partita contro la Fiorentina nel 1981. Casagrande lo sfiora, ma nulla di che. Carletto cade a terra e si tiene il ginocchio con due mani. Il dolore e la disperazione si sono fatti sentire, ad un certo punto si era sentito “crack” e le urla “il ginocchio”, “mi è uscito il ginocchio” con Falcao il primo a soccorrerlo. La diagnosi confermò la gravità dell’episodio percepita da tutti: rottura dei legamenti crociati. Ancelotti ha dimostrato la sua resilienza e determinazione nel superare l'ostacolo, ha trovato la forza di tornare in campo e continuare a giocare ai massimi livelli. Ha dimostrato il suo valore anche come allenatore, guadagnando successo in tutte le città europee in cui ha lavorato. Dal Milan al Chelsea, dal Paris Saint-Germain al Bayern Monaco e ora al Real Madrid, ha lasciato il segno in ogni club. Ha vinto numerosi trofei e ha creato squadre di grande valore, dimostrando la sua abilità nel gestire giocatori di talento e nel creare un ambiente di successo.

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De Laurentiis, il burbero che aveva ragione: il Napoli vince il quarto scudetto

di PIERANTONIO LUTRELLI - Napoli ci credeva. Napoli ci sperava. Ma forse nemmeno il più ottimista dei tifosi avrebbe immaginato che, nel giro di tre anni, la squadra azzurra avrebbe issato al cielo per ben due volte il tricolore. Dopo la magia di Maradona negli anni ’80, è toccato al “presidente burbero”, Aurelio De Laurentiis, scrivere nuove pagine nella storia partenopea. Con lo scudetto 2025, sono quattro i titoli della storia azzurra: due con Diego, due con Aurelio. Eppure, non è stato un cammino lineare. De Laurentiis ha spesso diviso, più che unito. Ha mangiato allenatori come fossero antipasti domenicali, ha rivoltato le rose come calzini, ha fatto piazza pulita anche quando tutto sembrava andare bene. Spalletti se n’è andato da campione, eppure via. Garcia? Un lampo. Mazzarri-bis? Esperimento fallito. Ma lui, il presidente, ha sempre tirato dritto. Ostico, ruvido, impopolare, ma visionario. Dietro le smorfie e le polemiche, De Laurentiis ha costruito un impero con metodo e ossessione. Il terzo scudetto, quello del 2023 con Osimhen e Kvaratskhelia protagonisti, era stato accolto come una favola. Ma il quarto, conquistato con una rosa rivoluzionata e l’ennesimo tecnico nuovo in panchina, è il suggello della sua strategia. Chi lo criticava per il suo “cinema” – in tutti i sensi – oggi deve ammettere che la sceneggiatura era giusta. Ha rilanciato il settore giovanile, costruito una società sana e patrimonializzata, ha investito dove serviva e tagliato dove necessario. In un calcio italiano spesso convalescente, il Napoli di De Laurentiis è diventato un modello industriale e sportivo. Maradona rimane il santo laico, il fuoriclasse che ha dato i primi due tricolori. Ma oggi, in bacheca, ci sono altri due scudetti. Non portano la firma di un 10 argentino, ma quella di un produttore testardo che a modo suo ha riscritto la storia. E allora, volenti o nolenti: ha avuto ragione lui.

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Ronaldo il Fenomeno: il marziano che ha riscritto le leggi del calcio

di PIERANTONIO LUTRELLI - In ogni epoca del calcio, c'è un nome che brilla più degli altri. Per i nostri genitori o i nostri nonni fu Pelé, l’uomo che con grazia, potenza e istinto felino regalò al Brasile tre Coppe del Mondo (1958, 1962, 1970). Per quelli della mia età fu Diego Armando Maradona, il genio ribelle, il poeta del pallone, l’eroe di Napoli e dell’Argentina, capace di segnare il gol del secolo e, con la “Mano de Dios”, scrivere una delle pagine più iconiche della storia del calcio. Ma per chi ha vissuto gli anni ’90 e i primi 2000, per chi ha visto il calcio con gli occhi sgranati di un bambino o con l’anima passionale di un tifoso, il più grande di tutti è stato uno solo: Ronaldo Luís Nazário de Lima. Il Fenomeno. Il talento che non sembrava umano. Infatti Ronaldo non era un calciatore. Era un’esplosione di forza, grazia e tecnica che sembrava piovuta da un altro pianeta. A soli 17 anni incantava al Cruzeiro, poi il salto in Europa: il PSV Eindhoven, e subito dopo un Barcellona folgorato dal suo talento. In una sola stagione in blaugrana, fece 47 gol in 49 partite. Numeri irreali, ma non erano solo le statistiche a renderlo leggenda: era il modo in cui segnava, saltando portieri, disintegrando difese intere, con una naturalezza che faceva sembrare il calcio il gioco più semplice del mondo. Poi arrivò l’Inter. E fu amore. Un amore totale, passionale, a volte doloroso. A San Siro Ronaldo non era solo un attaccante: era l’uomo che metteva paura a ogni difensore del campionato più difficile del mondo. Nesta, Maldini, Cannavaro: tutti hanno confessato, anni dopo, che affrontare Ronaldo era come cercare di fermare un uragano con le mani. “Partiva dopo e arrivava prima”, dicono. Quel doppio passo, quella progressione, quel controllo di palla in corsa a velocità disumana, rendevano inutile ogni tentativo di fermarlo. Ma anche gli dei cadono. Il ginocchio crolla, la carriera si interrompe, il mondo resta col fiato sospeso. L’Inter lo aspetta. Moratti lo coccola come un figlio. Ma quando Ronaldo torna, ha bisogno di voltare pagina. Va al Real Madrid, ai Galácticos. E lì, accanto a Zidane, Beckham, Figo e Roberto Carlos, dimostra che anche mezzo Ronaldo è più di qualsiasi altro intero. A Madrid incanta, segna, conquista. E in nazionale? Lì diventa immortale. Dopo il dramma del 1998, nel 2002 è lui il protagonista assoluto: 8 gol e la Coppa del Mondo, con una doppietta in finale contro la Germania. Ronaldo è di nuovo in cima al mondo. Ronaldo non è stato solo numeri, non è stato solo trofei. È stato emozione pura. È stato l’attesa prima che toccasse palla. Il boato del pubblico mentre partiva in corsa. Gli avversari lo ammiravano in silenzio. È stato l’idolo di una generazione intera, l’unico che metteva d’accordo tutti: tifosi, tecnici, avversari.Ha lasciato il segno ovunque: al Cruzeiro, al PSV, al Barcellona, all’Inter, al Real Madrid, al Milan, e ovviamente con la camiseta verdeoro, con cui ha vinto due Coppe del Mondo (1994 e 2002) e ha segnato 62 gol in 98 presenze. Oggi, mentre si parla di Messi, di Cristiano Ronaldo, di Haaland, di Mbappé, il nome di Ronaldo il Fenomeno continua a evocare qualcosa di diverso. Non solo grandezza, ma magia. Un calciatore che ha giocato con il corpo di un atleta e l’anima di un artista. Che ha saputo essere velocità e potenza, ma anche intelligenza e sensibilità calcistica. Che ha saputo emozionare, e in fondo, è questo che rende eterno un campione. Ronaldo è stato il calcio nella sua forma più pura. Il Fenomeno. Per sempre.

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Un Papa americano: la sorpresa di Leone XIV

di PIERANTONIO LUTRELLI - Chi se lo aspettava davvero? In pochi, forse nessuno. Eppure la fumata bianca dell’8 maggio ha portato con sé un nome che ha sorpreso il mondo intero: Robert Francis Prevost, statunitense, agostiniano, missionario, curiale. È lui il nuovo Pontefice, il primo Papa americano nella storia della Chiesa, e ha scelto un nome solenne e ricco di storia: Leone XIV. Nato a Chicago nel 1955, ma con radici italiane, francesi e spagnole, Prevost ha percorso un cammino lontano dai riflettori: anni trascorsi tra le periferie del Perù, poi il ritorno a Roma con incarichi delicati nella Curia. Un uomo di equilibrio, spiritualità profonda e visione pastorale. Ma nessuno lo dava tra i favoriti del conclave. Il suo nome non campeggiava nei pronostici, nei commenti, nelle analisi. E proprio per questo, la sua elezione assume oggi un valore emblematico: è il segno di una Chiesa che guarda oltre i confini, che osa, che sceglie un volto nuovo per tempi nuovi. Leone XIV si presenta al mondo come simbolo di un ponte tra le Americhe e l’Europa, tra le radici della tradizione e il respiro missionario del presente. La sorpresa è grande. Ma, a ben vedere, forse necessaria.

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Inter leggenda: 4-3 al Barcellona e finale di Champions

di PIERANTONIO LUTRELLI- Un gol al 93’, un altro al 99’. Lacrime, paura, gloria. L’Inter batte il Barcellona 4-3 ai supplementari e conquista una storica finale di Champions League, al termine di una doppia sfida spettacolare e folle: 7-6 il risultato complessivo. Due partite che sembrano uscite da un film, un’epica tutta nerazzurra che ricorda il celebre 4-3 dell’Italia sulla Germania nel 1970. Anche allora una semifinale. Anche allora una battaglia. Anche allora un finale da leggenda. La serata inizia come nei sogni. Al 21’, Lautaro Martínez sblocca il match, poi Çalhanoğlu firma il 2-0 al 45’+1 su rigore. Il Meazza esplode. Ma nella ripresa, il Barcellona si trasforma e in sei minuti ribalta tutto: prima Eric García al 54’, poi Dani Olmo al 60’. Quando al minuto 87 Raphael infila il gol del 3-2, il sogno sembra svanire. E il palo colpito dai blaugrana a dieci dalla fine è un presagio che gela il sangue. Poi, la scintilla. Francesco Acerbi trova il gol del pareggio al 90’+3: una zampata disperata, rabbiosa, l’ultima azione utile prima della fine. Un gol che vale oro, che riporta l’Inter in corsa e trascina la partita ai supplementari. Ed è lì, in quel tempo sospeso tra fatica e gloria, che si compie il destino. Davide Frattesi, al minuto 99, trova la rete del 4-3. È il gol della liberazione, il sigillo che porta l’Inter a Monaco di Baviera. Il Barcellona tenta il tutto per tutto, ma i nerazzurri resistono fino alla fine. Tredici gol in due partite, sette dell’Inter, sei del Barça. Due squadre votate all’attacco, senza calcoli, senza paura. Una semifinale che ha avuto il sapore della finale anticipata, giocata su ogni metro del campo, a viso aperto, tra fuoriclasse e nervi tesi. E se l’andata al Camp Nou era stata pirotecnica (3-3), il ritorno al Meazza è entrato nella leggenda. L’Inter ha avuto il vantaggio di giocare in casa il secondo round grazie a quel pareggio, ma ha dovuto guadagnarsi ogni centimetro di campo con i denti, fino all’ultimo secondo. Solo poche settimane fa, Simone Inzaghi era sulla graticola. Tre sconfitte consecutive, critiche, dubbi, voci di esonero. Oggi, lo stesso Inzaghi è a un passo dal diventare l’eroe di una Champions memorabile. Una lezione anche per chi osserva il calcio (e la vita) con giudizi troppo affrettati: serve tempo per costruire, serve equilibrio per valutare. E spesso non è solo una questione di risultati, ma di visione e coraggio. Tra i protagonisti di questa impresa nerazzurra ci sono anche tanti italiani: Acerbi, Frattesi, Barella. Non è più il tempo delle lamentele sui “troppi stranieri”. Il problema degli ultimi anni, per la Nazionale, è stato l’assenza di italiani pronti, davvero pronti, per palcoscenici importanti. Ora qualcosa sta cambiando. Finalmente tornano a farsi vedere calciatori italiani in grado di incidere nelle grandi notti europee. Ed è questa una notizia che fa ben sperare anche per il futuro della maglia azzurra, che ha tanto bisogno di nuove certezze. Nel 1970, dopo il 4-3 alla Germania, l’Italia si arrese al Brasile di Pelé e Rivelino. L’auspicio oggi è che l’Inter possa scrivere un finale diverso. Ma già ora questa squadra ha regalato ai suoi tifosi una notte da tramandare, una favola di orgoglio, sofferenza e riscatto. Perché il calcio è anche questo: un riflesso della vita, in cui nulla è mai davvero perduto.

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Noepoli: il paese che racconta la mia storia

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’era una volta Noja. È così che si chiamava un tempo l’attuale Noepoli (nella foto di basilicatawayglo.it), piccolo borgo lucano incastonato nel cuore del Parco Nazionale del Pollino. Il nome antico, probabilmente di origine greca o latina, custodisce la memoria di un luogo che ha attraversato secoli di storia, trasformandosi senza mai perdere la sua identità. Nel Medioevo, Noja fu terra di feudatari e baroni, mentre molto prima, sotto l’Impero Bizantino, rappresentava un avamposto spirituale e culturale. È da quell’epoca che nasce il culto della Madonna di Costantinopoli, icona sacra che ancora oggi è fulcro della devozione popolare e che ogni anno, il 6 agosto, viene celebrata con una solennità che attraversa generazioni. Il giorno prima, il 5 agosto, la festa era già nell’aria. C’era la fiera: un evento attesissimo, un vero punto di riferimento per chi viveva in una civiltà contadina, agropastorale, dove l’arrivo delle bancarelle rappresentava una finestra sul mondo. Prima dell’era di Amazon, dei centri commerciali e della distribuzione capillare, la fiera era l’unico momento dell’anno in cui si poteva comprare qualcosa di nuovo – spesso un vestito o un paio di scarpe – da indossare con orgoglio proprio il giorno della festa. Era un rito collettivo e personale insieme, segno di appartenenza e rinnovamento. Noepoli non è solo un paese. È il paese di mia madre, Filomena Miraglia, il luogo delle mie origini più vere. Quando da Bergamo – dove sono nato nel 1971 – tornavo ogni estate, fino al 1982, trovavo qui un mondo diverso, lento, autentico, profumato di fieno e di legna, pieno di visi familiari e mani callose, sincere. Ricordo le grandi tavolate con i parenti, i sapori forti e veri della tradizione: soppressate conservate con cura per noi “forestieri”, fatte assaggiare con orgoglio, come un dono prezioso. Il vino fatto in casa, che anche se non ti piaceva dovevi dire che era buono, perché rifiutarlo era quasi un’offesa. E poi il bar del paese, dove si faceva la fila per un ghiacciolo, dove si chiacchierava aspettando di fare una telefonata dal posto pubblico, in un’epoca in cui le notizie viaggiavano piano, ma i legami erano forti. C’era, in quegli anni, una vita lenta, fatta di piccoli gesti, di valori condivisi, di comunità. Una vita che oggi sembra lontana, quasi perduta, ma che resta viva dentro chi l’ha vissuta davvero. Nel 1863, il paese cambiò nome, diventando Noepoli – “nuova città” – quasi a segnare un nuovo inizio. Eppure, in fondo, Noepoli è rimasta fedele a se stessa: un luogo sospeso tra la storia e il cuore, tra la fede e la memoria. Oggi, Noepoli è meta di chi cerca l’autenticità, il silenzio, il ritorno all’essenziale. E per me resta un luogo dell’anima, dove tutto è cominciato. Ogni pietra, ogni angolo, ogni sorriso è un tassello della mia infanzia, della mia identità, di ciò che sono.

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Claudio Ranieri, l’ultimo signore del calcio saluta: un addio da leggenda

di PIERANTONIO LUTRELLI - A quasi 74 anni, Claudio Ranieri ha deciso: a fine stagione dirà addio al calcio giocato, chiudendo un cerchio iniziato oltre cinquant’anni fa sui campi di periferia. Lo farà con lo stile che da sempre lo contraddistingue: quello di un uomo elegante, umile, concreto, capace di imprese straordinarie senza mai perdere la semplicità. E ancora una volta, come sempre nella sua carriera, lo fa per amore. Amore per la sua Roma, che da tifoso ha accettato di guidare in corsa, in una stagione complicata, trascinandola a un passo da un sogno europeo e regalandole vittorie pesanti come quella, epica, conquistata a San Siro contro l’Inter. Ranieri non si è mai stancato di compiere imprese. Dai trionfi internazionali al miracolo Leicester – forse il più romantico della storia recente del calcio – il tecnico romano ha saputo riscrivere il concetto stesso di “squadra”: sacrificio, compattezza, spirito di gruppo. In Premier League ha lasciato un segno indelebile, conquistando il titolo con le Foxes nel 2016, sfidando ogni pronostico e facendo innamorare milioni di tifosi in tutto il mondo. Ma la sua impronta è stata forte ovunque: in Spagna, in Francia, in Italia, con promozioni e rilanci di squadre date per finite. Eppure, Ranieri è rimasto sempre lo stesso. Un uomo capace di esultare senza arroganza, di parlare senza alzare i toni, di vincere senza infierire. “Dobbiamo uscire a testa alta”, diceva ai suoi ragazzi. E loro, ieri come oggi, lo hanno seguito. Alla Roma è entrato ancora una volta in punta di piedi, in una stagione complicata, portando con sé il rispetto di uno spogliatoio intero e il sostegno di una tifoseria che in lui vede l’ultimo romantico del calcio. A San Siro, Ranieri ha regalato una lezione di calcio e di cuore: ha battuto l’Inter capolista con coraggio e strategia, mettendo in campo una Roma compatta, determinata, capace di osare senza snaturarsi. “Vincere 1-0 è un’arte”, ha detto sorridendo. E in effetti, chi meglio di lui ha saputo rendere epica la concretezza? Il futuro? “Se mi manca la panchina, andrò al giardinetto”, ha detto con ironia dopo aver già consegnato il tesserino a Coverciano. Nessun ripensamento, nessun dramma. Solo gratitudine e dignità. E mentre il calcio cambia pelle, rincorrendo mode e social, Ranieri lascia con la testa alta e con il rispetto universale che solo i grandi sanno guadagnarsi. Il suo è un addio vero, sentito, come ogni passo della sua lunga carriera. Claudio Ranieri, l’ultimo signore del calcio, ci lascia in eredità qualcosa di raro: la certezza che si può vincere senza mai perdere l’anima.

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Dalla 219 di Pomigliano al mito: Totò Di Natale, genio e umanità

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’è un ragazzo che nasce e cresce nella 219 di Pomigliano d’Arco, quartiere difficile dove il pallone è più di un gioco: è speranza, è sogno, è futuro. Quel ragazzo si chiama Totò Di Natale, e con il pallone ai piedi disegna poesia tra le strade polverose, mostrando da subito una tecnica sopraffina, un talento naturale che sfida ogni barriera. Di Natale non è uno da riflettori accecanti. Non è il protagonista delle prime pagine, eppure chi sa di calcio lo riconosce subito: ha il baricentro basso, la leggerezza degli aeroplanini, la concretezza di chi ha imparato a difendere il pallone come si difende la vita. La sua traiettoria ricorda quella di Vincenzo Montella, compagno di terra e di destino: entrambi partono da Pomigliano, entrambi cercano fortuna lontano, e trovano il trampolino a Empoli, una piccola piazza capace di credere nei sogni grandi. A Udine Totò trova la sua casa, il suo regno silenzioso. Lì, lontano dalle sirene dei grandi club, diventa un bomber implacabile, un punto fermo, un esempio. Segna, diverte, incanta. Al fantacalcio, chi scommette su di lui sa di aver trovato un tesoro: costa meno dei “grandi nomi”, ma regala molte più soddisfazioni. Di Natale è talento puro, ma è anche cuore immenso. Quando Piermario Morosini, suo compagno all’Udinese, muore improvvisamente lasciando sola la sorella disabile, Totò non esita: si prende cura economicamente e per sempre di lei, come se fosse parte della sua famiglia. Un gesto semplice, silenzioso, che racconta più di mille parole chi è Totò Di Natale. Nel parlare conserva il suo napoletano verace, la genuinità dello scugnizzo buono, la semplicità di chi non ha mai dimenticato da dove viene. E proprio per questo conquista: perché è autentico, sincero, vero. Oggi, mentre suo figlio rincorre il suo sogno tra i campi di Serie D, Totò Di Natale continua a rappresentare un modello raro: quello del campione che ha preferito la fedeltà alla gloria, l’essenza all’apparenza, il cuore al clamore. Perché nel calcio, come nella vita, non contano solo i trofei o i titoli sui giornali. Contano le persone. E Totò Di Natale resta uno di quei rari fuoriclasse che, anche senza clamore, ha saputo lasciare un segno incancellabile nella memoria di chi ama il calcio vero.

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Roberto Baggio, l’azzurro che portiamo nel cuore

di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono calciatori che restano impressi nella memoria per i trofei vinti, per le maglie indossate, per i record infranti. E poi c’è Roberto Baggio, che ha lasciato un segno indelebile nei cuori degli appassionati di calcio, non solo per le sue imprese sul campo, ma per l’emozione che ha saputo trasmettere ogni volta che toccava il pallone. Ricordo ancora nitidamente la prima volta che lo vidi giocare: era il 17 settembre 1989, Napoli-Fiorentina al San Paolo. La Fiorentina era in vantaggio per 2-0 e uno dei gol fu una perla di Baggio: partì da lontano, dribblò quattro o cinque giocatori del Napoli e segnò un gol che sembrava uscito da un sogno. Quel giorno, nonostante la rimonta del Napoli guidata da un Maradona appesantito ma sempre geniale, capii che quel ragazzo con il codino aveva qualcosa di speciale. La carriera di Baggio è stata un viaggio attraverso le principali squadre italiane: Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Eppure, quando pensiamo a lui, la prima immagine che ci viene in mente è quella della maglia azzurra della Nazionale. Come Gigi Riva prima di lui, Baggio è diventato il simbolo dell’Italia calcistica, più che di qualsiasi club. Il suo talento era puro, cristallino. Nonostante un grave infortunio al ginocchio a soli 18 anni, che oggi sarebbe stato più facilmente superabile grazie ai progressi della medicina sportiva, Baggio ha saputo reinventarsi, adattarsi, brillare. Dribbling fulminanti, calci piazzati millimetrici, visione di gioco superiore, una correttezza esemplare: mai una protesta, mai un fallo gratuito. Un vero signore del calcio. Il Mondiale del 1994 negli Stati Uniti è stato il suo apice e, al contempo, la sua croce. Trascinò l’Italia fino alla finale con prestazioni straordinarie, segnando gol decisivi contro Nigeria, Spagna e Bulgaria. Ma quella finale contro il Brasile, giocata da infortunato, si concluse con quel rigore calciato alto. Un momento che ancora oggi fa male ricordare, ma che non può oscurare la grandezza del suo percorso. Nel 2002, a 35 anni, dopo aver lottato per tornare in forma, sperava in una convocazione per il Mondiale in Corea e Giappone. Ma il CT Trapattoni decise diversamente. Una delusione che aggiunge un’ulteriore nota malinconica alla sua storia. Dopo il ritiro, Baggio ha scelto una vita lontana dai riflettori, dedicandosi alla famiglia, alla natura, alla sua azienda agricola. Un campione che ha preferito la semplicità alla mondanità, rimanendo nel cuore di tutti noi come l’emblema di un calcio fatto di passione, talento e umiltà. Oggi, se penso al più grande calciatore italiano di tutti i tempi, il mio cuore dice Roberto Baggio. Perché oltre ai numeri, ai trofei, ai gol, c’è l’emozione che ha saputo regalarci. E quella, non si dimentica.

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La vera lezione di Papa Francesco: contro il capitalismo predatorio, una Chiesa tra la gente

di PIERANTONIO LUTRELLI - Sin dal primo istante, da quel semplice “Fratelli e sorelle, buonasera” affacciato al mondo, Papa Francesco ha incarnato una visione radicale e necessaria della Chiesa: sobria, spoglia, vicina alla gente. Nessun anello dorato, nessun bastone pastorale vistoso, nessun palazzo principesco come residenza. Solo una Croce, una valigia di pelle consumata e il desiderio instancabile di essere “servo dei servi di Dio”. Ma questo stile non è stato solo un gesto. È stato un messaggio, un manifesto, un affondo potente contro le derive del capitalismo predatorio. Un sistema, ha denunciato più volte, che divora l’uomo, mercifica tutto, allarga le distanze, annienta il debole e idolatra il profitto. Papa Francesco non ha usato giri di parole. Ha definito il denaro “lo sterco del diavolo”. Ha criticato senza mezzi termini la finanza speculativa, l’economia dell’esclusione, il consumo sfrenato che brucia risorse e coscienze. Ha chiesto alla Chiesa di rinunciare a ogni forma di potere temporale che la allontana dagli ultimi. E, soprattutto, ha scelto per sé l’umiltà come abito, la semplicità come profezia. Nella sua visione, la Chiesa doveva tornare a essere “ospedale da campo”, non fortezza autoreferenziale. Doveva parlare con i poveri, non dei poveri. Doveva camminare con gli ultimi, non su tappeti rossi. Una Chiesa in uscita, che non teme di sporcarsi le mani, di stare nelle periferie, non solo geografiche, ma esistenziali. La scelta di rinunciare a simboli di potere, l’attenzione costante alle vittime dell’economia globale, la lotta per la dignità del lavoro e contro lo sfruttamento: tutto questo non è stato semplice buonismo, ma un atto profondamente politico, nel senso più nobile del termine. Un gesto che chiama ogni uomo e ogni donna a riflettere sul mondo che vogliamo costruire. Papa Francesco ci ha lasciato una lezione chiara: o l’umanità torna a mettere l’uomo al centro, o sarà la logica del profitto a disumanizzarci tutti. O riscopriamo il valore della sobrietà, o continueremo a vivere in un sistema che produce scarti umani. E ora che non c’è più, questa voce non deve spegnersi. Sta a noi custodirla, ripeterla, viverla. Non basta ammirare Francesco. Bisogna seguirne l’esempio.

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Il prossimo Papa? Forse è tempo di tornare in Italia

di PIERANTONIO LUTRELLI - È una riflessione che mi accompagna da tempo, e che oggi, in questo contesto così fragile e frastagliato, sento il bisogno di condividere: il prossimo Papa potrebbe — e forse dovrebbe — essere italiano. Da oltre quattro decenni la Chiesa ha guardato lontano, scegliendo papi provenienti da terre simbolicamente e strategicamente importanti. Prima Giovanni Paolo II, dalla Polonia, a segnare la fine della Guerra Fredda. Poi Benedetto XVI, dalla Germania, voce della teologia e del rigore. E infine Francesco, il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, portatore di un’umanità nuova, profetica, e profondamente pastorale. Ma oggi lo scenario è diverso. L’Europa non è più il centro del mondo, ma resta un nodo cruciale nel destino della Chiesa cattolica. È il continente in cui la fede arranca, ma in cui la domanda di senso, spesso silenziosa, è ancora viva. Un Papa europeo, capace di comprenderne le tensioni culturali, sociali e spirituali, potrebbe essere una risposta forte. E tra i Paesi europei, l’Italia — per tradizione, per centralità, per presenza nella Curia — si ripropone come candidata naturale. Se non sarà nuovamente la Germania (e dopo Ratzinger, sembra improbabile), perché non l’Italia? Il collegio cardinalizio offre profili di grande spessore. Alcuni, già oggi, emergono con chiarezza: Matteo Zuppi, il cardinale “di strada”, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI, voce inclusiva, instancabile costruttore di dialogo e pace. Pietro Parolin, il Segretario di Stato, figura solida, diplomatico di razza, che conosce ogni piega delle stanze vaticane. Mauro Gambetti, arciprete della Basilica di San Pietro, francescano con forte spiritualità e discrezione operosa. Pier Battista Pizzaballa (nella foto), patriarca latino di Gerusalemme, francescano bergamasco, con una lunga esperienza in Terra Santa. La sua profonda conoscenza del Medio Oriente e il suo impegno per il dialogo interreligioso lo rendono un candidato di rilievo. Non sono previsioni, ma possibilità. In fondo, i conclavi sorprendono sempre, e lo Spirito si muove libero. Ma l’idea di un Papa italiano oggi non è nostalgia: è, forse, una necessità. Perché la Chiesa, in un tempo così incerto, potrebbe aver bisogno di tornare simbolicamente “a casa”, per ripartire verso il mondo con nuovo slancio.

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Nel silenzio del mattino è morto Papa Francesco

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, è scomparso oggi all’età di 88 anni nella sua residenza a Casa Santa Marta, dopo un ricovero per una polmonite bilaterale. Il suo pontificato, iniziato nel 2013, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa e dell’umanità. E' stato un pontefice che ha segnato il nostro tempo con umiltà, coraggio e una visione di Chiesa aperta e misericordiosa

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Roma, emozione e passione: oltre il calcio, una metafora di vita

di PIERANTONIO LUTRELLI - Recentemente, allo Stadio Olimpico di Roma, si è respirata un'aria di profonda emozione durante la partita di Europa League contro l'Athletic Bilbao, dove la Roma ha trionfato con un gol segnato nei minuti di recupero. Questo evento non è solo una mera vittoria sportiva; rappresenta un momento di celebrazione per una città e una tifoseria che, nel corso degli anni, hanno vissuto alti e bassi, ma che continuano a sostenere con passione la propria squadra del cuore. La storia della Roma è scolpita nella memoria collettiva della capitale. Con soli tre scudetti, la Roma non è la squadra con il palmarès più ricco, ma la sua leggenda è fatta di icone immortali che hanno calcato il terreno di gioco e lasciato un'impronta profonda. Dalla classe di Paolo Roberto Falcao e Bruno Conti, passando per le gesta di Agostino Di Bartolomei e Roberto Pruzzo, fino ad arrivare ai moderni eroi del campo come Francesco Totti e Daniele De Rossi, ogni nome evoca un ricordo, una emozione, una storia da raccontare. Il “magico” Francesco Totti, capitano indiscusso per 25 anni, ha incarnato l’amore e la dedizione per la maglia giallorossa. Il suo legame con la Roma, unica squadra per cui ha militato, ha sfidato il tempo e i record, trasformandolo in un simbolo di lealtà e passione. Al suo fianco, uomini come Carlo Mazzone, che ha visto la nascita di Totti come calciatore, e l'eroico Claudio Ranieri, che torna alla guida della Roma portando con sé l'esperienza e la saggezza di chi conosce il calcio e la psicologia di ogni giocatore. Ma perché, oltre il risultato sul campo, essere tifosi della Roma è qualcosa di speciale? Perché, nonostante sia una squadra non abituata ai trionfi, l'amore dei suoi tifosi è inguaribile. È una passione che va oltre il semplice conteggio dei trofei. Questo è il cuore della cultura romanista: una celebrazione della bellezza del gioco, dell'unità tra i tifosi e della magia di un momento condiviso. Che si tratti di cantare "Roma Roma Roma" o "Mai sola", c'è una connessione profonda tra il popolo giallorosso e la propria squadra, un legame che si fortifica ogni volta che le bandiere giallo-rosse sventolano sugli spalti. Essere romanisti significa anche accettare la sofferenza e l'adrenalina che accompagnano una stagione. È la consapevolezza che non sempre si vince, ma si gioca con il cuore e si gode del viaggio. La vittoria, quando arriva, sa di autentica magia, come nel 2001 al Circo Massimo, dove oltre un milione di persone festeggiò per il titolo conquistato. In un mondo che spesso celebra il successo immediato, i tifosi della Roma ritrovano significato nel tifo, nella passione e nella comunità che si forma attorno a essi. Il ritorno di Ranieri non è solo un colpo di scena nel mondo del calcio, ma un richiamo al passato che fa rivivere la storia del club. La sua esperienza e la sua umanità gli permettono di guidare la squadra verso traguardi sempre più ambiziosi, ma senza perdere di vista l’importanza di mantenere il giusto spirito. Questo è ciò che faremmo bene a ricordare anche nella vita: il vero successo non risiede esclusivamente nei trofei o nei risultati, ma nella capacità di rialzarsi, di lottare e di rimanere uniti, indipendentemente dagli ostacoli. Essere tifosi della Roma rappresenta una metafora potente della vita. È un invito a vivere con passione e autenticità, a trovare gioia nei piccoli momenti e a costruire legami profondi. Così come nel calcio, nella vita non è importante solo arrivare al traguardo, ma anche il percorso, le esperienze e le emozioni che rendono ogni passo significativo. La Roma è molto più di una semplice squadra: è una scuola di vita che insegna come affrontare le sfide con coraggio e determinazione. Per questo, ogni volta che i giallorossi scendono in campo, lo fanno non solo per vincere, ma per regalare un'esperienza magica a tutti i loro tifosi. E, in fondo, è proprio questo che conta.

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Gli 83 anni di Dino Zoff: una leggenda del calcio italiano

di PIERANTONIO LUTRELLI - Il 28 febbraio 1942, in un piccolo paese del Friuli, Mariano del Friuli in provincia di Gorizia, nacque un uomo che sarebbe diventato uno dei simboli indiscussi del calcio italiano: Dino Zoff. Ieri, Zoff ha compiuto 83 anni, e la sua figura continua a brillare nella memoria calcistica, non solo come portiere della Juventus, ma soprattutto come capitano e allenatore della Nazionale in cui ha lasciato un’impronta indelebile. Dino Zoff non è solo un nome, è una leggenda vivente, un autentico monumento dello sport italiano. Cresciuto in un'epoca in cui il calcio non conosceva le comodità moderne della preparazione atletica, Zoff ha dimostrato che con dedizione e lavoro duro si possono raggiungere vette straordinarie. Il suo debutto in Serie A avvenne nel 1961, e da lì iniziò un percorso che lo avrebbe visto collezionare oltre 550 presenze nel massimo campionato italiano e conquistare trofei nazionali e internazionali, tra cui la Coppa del Mondo del 1982. La sua carriera come portiere è un esempio di maestria tecnica e leadership. Zoff era noto per la sua calma infinita, la sua abilità nel coordinare la difesa e la sua presenza rassicurante tra i pali. Queste qualità hanno alimentato la sua reputazione di uno dei migliori portieri di tutti i tempi. Nonostante i suoi punti deboli, come la vulnerabilità ai tiri da fuori area, il suo senso di posizione e la prontezza di riflessi lo hanno reso una muraglia per gli attaccanti avversari. La leggendaria partita Italia-Brasile ai Mondiali del 1982 è un capitolo fondamentale della sua carriera, dove ha guidato la squadra verso una storica vittoria, bloccando i tentativi dei più temibili giocatori brasiliani. Al Brasile bastava anche il pareggio per andare in semifinale e l'Italia riuscì a vincere contro i pronostici della vigilia con una partita memorabile in cui Zoff fece la sua parte bloccando sulla linea un colpo di testa di Oscar. Ma non solo in quella gara fu memorabile. Il culmine della carriera di Zoff si è manifestato in quel trionfo mondiale, dove alzò il trofeo come capitano della Nazionale italiana. Quella vittoria ha rappresentato molto di più di un semplice trofeo; era un simbolo di unione per il popolo italiano, e Zoff divenne un simbolo di orgoglio nazionale. Le immagini di lui al fianco di Sandro Pertini e all'allenatore, Enzo Bearzot mentre festeggiavano insieme, restano impresse nella memoria collettiva, rappresentando un periodo di grande gioia e unità. Dopo aver chiuso le porte di un'illustre carriera da calciatore, terminata nel 1983 dopo la sconfitta ad Atene contro l'Amburgo nella finale di Coppa dei campioni, Dino Zoff ha intrapreso un cammino da allenatore, inizialmente con la Juventus e poi guidando la Nazionale italiana e contribuendo a preparare le future generazioni. Tuttavia, la sua avventura sulla panchina della Nazionale è stata segnata da una dose di sfortuna: nel 2000, la squadra era in vantaggio nella finale degli Europei, ma subì un drammatico pareggio negli istanti conclusivi si vide soffiare la coppa al golden goal dalla Francia. Nonostante il rammarico di quell'episodio, Zoff continuò a dare il suo contributo, allenando con grande competenza la Lazio e ponendo le basi per una squadra di successo in quelle che furono poi le stagioni dei successi di Sven Goran Eriksson. La carriera da tecnico terminò con la Fiorentina. Se vogliamo parlare di un rammarico posso dire che nella carriera di Zoff ci poteva stare l'incarico di dirigente accompagnatore della nazionale o della Federazione italiana gioco calcio che a mio avviso avrebbe meritato. 

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L'Intelligenza artificiale nella medicina: un futuro promettente per la salute dei cittadini

di PIERANTONIO LUTRELLI - Negli ultimi anni, l'intelligenza artificiale (AI) ha compiuto significativi progressi, portando innovazioni che stanno rivoluzionando il settore medico. Questa evoluzione scientifica  sta attivamente rimodellando il panorama della medicina moderna, portando a diagnosi più accurate, trattamenti personalizzati e una gestione più efficiente delle risorse sanitarie. Grazie a queste innovazioni, la salute dei cittadini è sempre più nelle mani di tecnologie avanzate che promettono un futuro migliore e più sano per tutti. L'adozione dell'AI nella medicina - a mio modesto parere - non è solo una tendenza, ma una necessità per garantire servizi sanitari di qualità e accessibili a tutti. Da strumenti di diagnosi precoci a piattaforme di telemedicina, l'AI si sta rivelando un alleato prezioso per migliorare la salute dei cittadini. Questa tecnologia non solo rende più efficienti le pratiche sanitarie, ma offre anche opportunità per personalizzare i trattamenti e migliorare la gestione delle malattie. Ma in che modo l'AI sta realmente influenzando la medicina al giorno d'oggi? Esploriamo insieme alcuni esempi concreti. Uno degli utilizzi più promettenti dell'AI in medicina è rappresentato dalla diagnosi precoce. Attraverso algoritmi avanzati, l'AI è in grado di analizzare enormi quantità di dati provenienti da immagini mediche, come radiografie e risonanze magnetiche. Ad esempio, la ricerca di Google Health ha dimostrato che l'AI può superare i radiologi umani nella capacità di individuare segni precoci di tumori al seno, contribuendo ad aumentare le possibilità di diagnosi tempestiva e di successo nel trattamento. La telemedicina ha guadagnato un'attenzione crescente, specialmente a seguito della pandemia. Gli assistenti virtuali alimentati da AI offrono supporto ai pazienti rispondendo a domande sanitarie e fornendo informazioni personalizzate. Utilizzando sistemi di triage basati su AI, i pazienti possono ricevere un'analisi preliminare dei loro sintomi, indirizzandoli verso le corrette consultazioni mediche e contribuendo a ridurre il carico sugli ospedali. Altro aspetto non di poco conto è la capacità di personalizzare i trattamenti cosa che sta ridefinendo la medicina moderna. Con l'analisi dei dati genetici e clinici, l'AI consente ai medici di creare piani di trattamento su misura per ogni paziente. In oncologia, ad esempio, i sistemi decisionali basati su AI possono raccomandare terapie target che aumentano le probabilità di successo, analizzando dati clinici, risposte precedenti ai trattamenti e informazioni biologiche. L' AI gioca un ruolo cruciale anche in ambito delle  malattie croniche le quali richiedono un monitoraggio costante. Tecnologie di monitoraggio remoto e applicazioni per smartphone aiutano i pazienti a gestire patologie come il diabete. Grazie a dispositivi indossabili, l'AI analizza i dati in tempo reale, fornendo feedback e avvisi importanti ai pazienti e ai professionisti sanitari, garantendo che le anomalie siano gestite tempestivamente. L'AI sta anche accelerando la ricerca e lo sviluppo di farmaci. Analizzando relazioni complesse tra molecole e loro effetti, gli algoritmi di AI possono identificare potenziali nuovi farmaci in tempi significativamente ridotti. Durante la pandemia di COVID-19, ad esempio, tali tecnologie hanno facilitato la scoperta di trattamenti e vaccini, dimostrando la loro efficienza nel contesto emergenziale. Oltre agli aspetti clinici, l'AI contribuisce a migliorare l'efficienza operativa nelle strutture sanitarie. Analizzando dati relativi al flusso dei pazienti, alla disponibilità di posti letto e alla gestione delle forniture, i sistemi di AI ottimizzano le operazioni quotidiane, permettendo una migliore gestione delle risorse e una riduzione delle attese. Infine, l'AI gioca a mio avviso anche un ruolo importante nell'educazione dei pazienti. Attraverso chatbot e piattaforme digitali, questa tecnologia offre informazioni e consigli personalizzati per promuovere una maggiore consapevolezza sulla salute, aiutando i cittadini a prendere decisioni più informate e responsabili.

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Il '94 rivisitato: un'analisi sincera della finale mondiale

di PIERANTONIO LUTRELLI- Nel 1994, l'Italia raggiunse la finale dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti, un traguardo che molti considerano un miracolo sportivo. La squadra, guidata da Roberto Baggio, noto come il "Divin Codino", si presentò alla sfida contro il Brasile carica di entusiasmo, ma la partita si rivelò un’odissea. Il Brasile vinse la finale ai calci di rigore, e fu proprio Baggio a sbagliare l'ultimo penalty, un momento che rimarrà per sempre impresso nei cuori degli italiani. Tuttavia, è importante contestualizzare questo evento: Baggio era reduce da un infortunio che comprometteva la sua prestazione. La sua assenza in forma completa - un eufemismo - si fece sentire, e la vittoria ci sfuggì di mano. In panchina c'era Arrigo Sacchi. Molti sostengono che con Fabio Capello al suo posto la coppa sarebbe potuta essere nostra. Capello, noto per la sua capacità di organizzare e motivare le squadre, avrebbe potuto apportare scelte strategiche diverse, inclusa la gestione degli infortuni e delle sostituzioni. Inoltre, il Brasile che ci affrontò non era il miglior Brasile di sempre. Pur avendo una grande tradizione, la squadra mostrò un gioco meno brillante e tecnico di quanto ci si aspettasse. Se l'Italia avesse potuto contare su una formazione al completo, con Baggio in forma e una panchina strategicamente robusta, il risultato finale potrebbe essere stato ben diverso. E' giusto ricordare che le responsabilità di una sconfitta in una finale non possono essere attribuite a un singolo errore o una singola persona. Ci furono scelte tattiche e decisioni che influenzarono il corso della partita, e la sconfitta ai rigori è solo un capitolo in una storia molto più complessa. Beppe Signori è stato uno dei migliori attaccanti italiani degli anni '90, noto per il suo fiuto per il gol e la sua abilità nei calci di rigore. Durante le stagioni 1992-93 e 1993-94, è stato capocannoniere della Serie A con la Lazio, contribuendo significativamente ai successi della squadra. Nonostante il suo talento, Signori non venne schierato neanche in uno dei 120 minuti della lunghissima finale del Mondiale '94. In quella partita cruciale contro il Brasile, l'assenza di un rigorista esperto come lui si fece sentire, soprattutto dopo l'errore di Roberto Baggio. Molti tifosi e commentatori ritengono che l'inserimento di Signori avrebbe potuto cambiare le sorti della finale, dando all'Italia una chance in più per vincere il titolo. Dissento pertanto da quanto Arrigo Sacchi ha recentemente affermato a Fanpage "che la paura di Silvio Berlusconi abbia influito sulla nostra sconfitta ai Mondiali del '94,perché Berlusconi faceva paura", ma questa lettura della situazione merita un'analisi più approfondita. A mio avviso le ragioni della nostra non vittoria sono da ricercare esclusivamente in motivazioni tecnico-calcistiche. In quel torneo, l'Italia ha affrontato diverse sfide, tra cui l'infortunio di Roberto Baggio, il nostro giocatore di punta, che si presentò in finale con un problema fisico che ne limitò le prestazioni. Inoltre, la gestione delle sostituzioni e delle scelte tattiche da parte dello staff tecnico giocarono un ruolo cruciale. La decisione di non schierare un rigorista esperto come Beppe Signori, capocannoniere della Serie A, è un esempio lampante di come le scelte in campo possano avere un impatto determinante sul risultato finale. Pertanto, è importante riconoscere che la sconfitta in quella finale non può essere attribuita a fattori esterni o politici, ma piuttosto a dinamiche interne alla squadra e alle scelte fatte durante il torneo. La storia del '94 deve essere vista attraverso la lente delle prestazioni sportive e delle decisioni tecniche, piuttosto che essere influenzata da narrazioni che mescolano sport e politica. 

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Restiamo umani

di PIERANTONIO LUTRELLI - Oggi si osserva un'importante tendenza verso l'umanoidizzazione. Robot sempre più simili agli esseri umani stanno diventando una realtà. La prospettiva di avere robot domestici o camerieri nei ristoranti suscita ammirazione, ma anche timore. Entro dieci anni, potremmo vederli in ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Questo transumanesimo può rappresentare un'opportunità per migliorare l'efficienza e la qualità della vita. Tuttavia, è fondamentale che l'intelligenza artificiale e i robot aiutino gli esseri umani senza sostituirli. Dobbiamo mantenere il nostro valore umano, la nostra empatia e le nostre capacità uniche. La chiave è trovare un equilibrio tra tecnologia e umanità. La tecnologia, quando utilizzata correttamente, può essere uno strumento potente per migliorare la nostra vita. Può semplificare compiti ripetitivi, consentire una migliore comunicazione e persino aprire nuove frontiere nella medicina e nell'istruzione. Tuttavia, il rischio di diventare troppo dipendenti da essa può portare alla perdita di alcune delle qualità che ci rendono umani. Uno degli aspetti più preziosi della nostra umanità è la capacità di provare empatia e di interagire con gli altri in modo significativo. I robot, per quanto avanzati, non possono replicare totalmente queste capacità. Le emozioni umane e la comprensione profonda sono il frutto di esperienze vissute, qualcosa che le macchine non possono acquisire. La creatività è un'altra area in cui gli esseri umani eccellono. Mentre le intelligenze artificiali possono analizzare dati e generare soluzioni basate su modelli esistenti, la vera innovazione spesso nasce dalla capacità di pensare fuori dagli schemi. Gli esseri umani hanno la capacità di sognare, immaginare e creare in modi che le macchine non possono eguagliare. Con l'avanzare della tecnologia, diventa cruciale affrontare le questioni etiche e di responsabilità. Chi è responsabile delle decisioni prese da un'intelligenza artificiale? Come possiamo garantire che le tecnologie siano utilizzate per il bene comune e non per scopi dannosi? Per mantenere un equilibrio tra tecnologia e umanità, è essenziale investire nell'educazione e nella formazione. Le nuove generazioni devono essere preparate a interagire con la tecnologia in modo consapevole e responsabile, sviluppando al contempo le proprie capacità uniche come la creatività, l'empatia e il pensiero critico. La collaborazione tra esseri umani e macchine può portare a risultati straordinari. Invece di temere la sostituzione, dovremmo vedere la tecnologia come un partner che può amplificare le nostre capacità. I robot possono aiutarci a svolgere compiti ripetitivi o pericolosi, permettendoci di concentrarci su attività che richiedono un tocco umano. Un equilibrio che vedo minacciato a vantaggio di chi pilota la sostituzione delle persone in carne ed ossa con i robot. Restiamo umani.

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Un viaggio commovente nel Ghetto Ebraico di Roma: l’incontro con le Pietre d’inciampo

di PIERANTONIO LUTRELLI - Durante una recente visita a Roma, ho avuto l'opportunità di esplorare il Ghetto Ebraico, un luogo carico di storia e memoria. Questo quartiere non è solo un simbolo della lunga presenza ebraica nella capitale italiana, ma anche un luogo di commemorazione per le terribili tragedie subite dalla comunità ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale. Passeggiando per le strade acciottolate del ghetto, sono rimasto profondamente colpito dalle pietre d’inciampo. Queste piccole targhe di ottone, inserite nel selciato davanti alle ultime abitazioni conosciute delle vittime del nazismo, sono state create dall'artista tedesco Gunter Demnig. Ogni pietra è un memoriale dedicato a una singola persona, con inciso il nome, la data di nascita e il destino tragico di coloro che furono deportati e uccisi nei campi di concentramento nazisti. In particolare, mi sono soffermato davanti alle pietre che commemorano: Lazzaro Moscato, nato nel 1900, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Giuseppe Moscato, nato nel 1926, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Bruno Anselmo Moscato, nato nel 1930, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Chiara Limentani, nata nel 1919, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944; Emilia Pavoncello, nata nel 1914, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944; Mario De Vito, nato nel 1912, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944 ed Emma De Vito, nata nel 1913, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944. Trovarsi di fronte a queste pietre è stato un momento di profonda riflessione e commozione. Ognuna racconta una storia di vita spezzata, una famiglia distrutta, un futuro mai realizzato. Camminare su queste strade e leggere i nomi, spesso accompagnati dalle date di nascita di bambini, è un promemoria potente della brutalità della storia, ma anche della resilienza e della dignità delle vittime e dei sopravvissuti. Il Ghetto Ebraico di Roma, con le sue struggenti pietre d’inciampo, non è solo un luogo di memoria storica, ma anche un monito contro l'odio e l'intolleranza. È un invito a ricordare e a non dimenticare mai, affinché simili atrocità non si ripetano. Scrivere questo articolo è stato per me un modo per onorare quelle vite e condividere con gli altri l’importanza di mantenere viva la memoria. Invito tutti a visitare il Ghetto Ebraico di Roma e a dedicare un momento di riflessione davanti a queste pietre, per ricordare le vittime dell’Olocausto e sottolineare l’importanza della memoria storica.

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Totò Schillaci, quei 15 minuti che lo hanno consegnato alla storia

di PIERANTONIO LUTRELLI - La recente scomparsa di Totò Schillaci ha colpito il cuore di molti, non solo per la sua carriera calcistica, ma per il suo essere una persona normale, un uomo tra la gente, che ha affrontato la malattia in un ospedale pubblico di Palermo. La sua vita, spezzata da un tumore al colon, continua a suscitare emozione e nostalgia, dimostrando che, a volte, le storie più toccanti non appartengono solo ai grandi nomi, in quanto tali, ma a chi ha saputo conquistare il pubblico con autenticità e umanità. Totò Schillaci non era un fuoriclasse preconizzato. Era un ragazzo di Palermo, un esempio di come lo sport possa rappresentare la via di fuga da una vita di difficoltà e degrado. La sua ascesa nel mondo del calcio è simbolica delle speranze e dei sogni di una generazione intera. Nel 1990, quando il mondiale si svolse in Italia, lo sport e la nazionale rappresentavano un'opportunità di riscatto per molti giovani, e Schillaci si trovò a interpretare un ruolo da protagonista in un momento che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Ricordo con vividezza quei mondiali e l'aspettativa che circondava la nostra nazionale, composta da nomi illustri come Baggio, Vialli e Mancini. Ma fu un'azione inaspettata a cambiare il corso della storia. Dopo un deludente pareggio con l'Austria, il commissario tecnico Azeglio Vicini decise di scommettere su di lui, gettandolo nella mischia al 75º minuto. Tre minuti più tardi, al 78º, un cross perfetto di Gianluca Vialli dalla destra trovò Totò pronto a colpire di testa. Un gesto semplice, ma carico di significato: 1-0 e l'Italia era di nuovo in corsa. Quella rete non fu solo un gol, ma il simbolo di una vittoria più grande. Totò Schillaci divenne l'orgoglio di una nazione, un eroe per il Sud, per la Sicilia e per tutti coloro che si riconoscevano nella sua storia di riscatto. Con il suo sorriso e la sua spontaneità, riuscì a conquistare i cuori di milioni di italiani. Non era solo un calciatore, ma un rappresentante di una generazione che sognava e credeva che tutto fosse possibile. La sua performance nel torneo fu straordinaria: 6 reti e il titolo di capocannoniere. Ma, al di là dei numeri, ciò che rimane è il ricordo di quei 15 minuti che lo hanno consacrato. Schillaci ha dimostrato che a volte, in un momento di difficoltà, basta un attimo per cambiare il proprio destino, per diventare parte della storia. La sua capacità di empatizzare con il pubblico ha reso il suo nome sinonimo di passione e determinazione. Oggi, mentre piangiamo la sua scomparsa, ricordiamo che Totò non è solo un nome che passa nel silenzio della storia. La sua eredità vive in ogni tifoso, in ogni giovane che sogna di calcare il campo da calcio, in ogni persona che trova conforto e ispirazione nella sua storia. La poesia del calcio trionfa sul silenzio: Totò Schillaci è e rimarrà sempre vivo nei cuori di tutti noi.

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L'importanza dell'equità finanziaria nella politica elettorale

di PIERANTONIO LUTRELLI - La politica non sia appannaggio esclusivo dei ricchi, ma una vera e propria opportunità per tutti. Purtroppo nella contemporaneità, affrontare una carriera politica di alto livello richiede non solo un impegno significativo, ma anche l'accesso a risorse finanziarie considerevoli per condurre una campagna elettorale efficace. Non vi è dubbio che questa realtà genera una disparità di opportunità che impedisce a individui con grandi idee, ma limitate risorse, di candidarsi per posizioni di rilievo come la carica di sindaco in una grande città o di presidente di una regione. Questa tendenza, in cui la politica sembra essere riservata solo ai ricchi, solleva a mio avviso la necessità di una riforma che assicuri un finanziamento equo per tutti i candidati, consentendo così una partecipazione democratica più inclusiva. La campagna elettorale richiede una serie di attività e risorse, dalle tradizionali manifestazioni pubbliche ai santini elettorali, ai manifesti, fino alle spese per gli eventi e i collaboratori. Tutta una serie di “spese vive”. Orbene, tutto ciò genera un considerevole onere finanziario che non tutti possono sostenere. Questo scenario crea una barriera per l'accesso alla politica per coloro che non dispongono di risorse finanziarie adeguate, limitando la diversità di idee e prospettive che potrebbero arricchire il dibattito politico.La mia proposta: una legge per l'equità finanziaria dei candidati

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Paulo Roberto Falcao: l'artefice del risveglio della Roma negli anni '80

di PIERANTONIO LUTRELLI - Gli anni '80 sono stati un periodo d'oro per il calcio italiano, e per me sono stati gli anni in cui ho iniziato a capire cosa significasse davvero questo sport. Il primo campionato che ho seguito con passione è stato quello del 1980-81, un'annata che ha segnato l'inizio di una nuova era per la Roma, guidata dall'allenatore svedese Nils Liedholm. La Roma, fino all'anno precedente, era sempre stata considerata una squadra di media classifica, ma in quell'anno qualcosa stava per cambiare. La Figc decise di aprire le frontiere, permettendo ai club di acquistare calciatori stranieri. Fu in questo contesto che la Roma si distinse, acquistando il brasiliano Paulo Roberto Falcao, un giocatore relativamente sconosciuto in Europa, ma che gli astuti osservatori della Roma - guidata dal grande presidente Dino Viola -avevano individuato in Brasile. Ed è proprio a lui che dedico questo post in occasione del suo settantesimo compleanno, avvenuto lo scorso 16 ottobre. Falcao aveva 27 anni, ma un'esperienza da veterano e una classe immensa. Nel centrocampo, conferiva sicurezza a tutta la squadra e in poco tempo divenne l'uomo di fiducia dell'allenatore. "È Falcao che dirige l'orchestra in campo. Io, al massimo, qualche volta gli scrivo la musica o arrangio lo spartito seguendo certe idee", diceva a quei tempi il compianto Liedholm, rendendo molto bene l'idea. Era un calciatore completo: ambidestro, forte di testa, dotato di grandi doti nel dribbling, ottimo controllo di palla. Sapeva proteggere la difesa facendo il difensore aggiunto ed allo stesso tempo attaccare. Aveva visione di gioco e capacità di finalizzare goal importanti. Indossava la maglia numero 5, un numero solitamente assegnato agli stopper, ma lui, che non era uno stopper, l'aveva scelto come suo distintivo personale. Dimostrando anche qui di essere molto avanti con i tempi. Ancora oggi, quando vedo un calciatore della Roma con la maglia numero 5, mi emoziona pensare che quella sia stata la maglia di Falcao. Il calciatore brasiliano di Porto Alegre fu così abile nel cambiare la mentalità della squadra e nel farla crescere, che la Roma iniziò subito a lottare per lo scudetto, e ci riuscì quasi. Fu solo per un goal annullato di Turone che la Juventus riuscì a sancire la sua vittoria, poiché nello scontro diretto alla penultima giornata di campionato la partita finì a zero a zero tra le polemiche che non si placano nonostante siano passati 43 anni. A fine stagione, la Juve terminò con 44 punti e la Roma con 42 punti. Falcao si era guadagnato l'appellativo di "Ottavo Re di Roma" e aveva infuso un grande entusiasmo in tutta la città. Per lo scudetto bisognerà attendere il 1983, ma la cosa che più mi ha colpito è che quando lui era in campo, tutti noi bambini che tifavamo per la squadra, ci sentivamo parte di qualcosa di più grande. Era un qualcosa che andava oltre il calcio. Aveva il sapore del riscatto. Vincere in maniera non facile, non scontata, ha un sapore molto più importante di quando si è abituati a vincere sempre e a vincere facilmente. Fu proprio da bambino seguendo la Roma che mi accorsi di non essere "vincentista". Paulo Roberto Falcao era il rappresentante di un mondo povero veniva da quel sud del mondo, ma aveva saputo riscattarsi e portare una squadra non abituata a vincere sul tetto d'Italia e d'Europa.

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Giorgia Meloni: Un plauso alla determinazione e al coraggio della premier

di PIERANTONIO LUTRELLI - Giorgia Meloni, la prima donna nella storia della Repubblica Italiana a ricoprire la carica di premier, merita un plauso per la sua determinazione e il suo coraggio nel prendere una decisione difficile nella sua vita personale: dichiarare finita la relazione con il giornalista milanese Andrea Giambruno padre di sua figlia Ginevra di 7 anni. Nonostante le sue umili origini e le sfide che ha affrontato lungo il suo percorso, Meloni ha dimostrato di essere una figura di grande risolutezza. Come quando disse a Berlusconi “Non sono ricattabile”. In un mondo dove spesso le figure politiche si nascondono dietro le convenzioni e le apparenze, Meloni si distingue per la sua autenticità e la sua volontà di affrontare le difficoltà senza paura. La sua carriera politica è un esempio di come la determinazione e il decisionismo possono portare a risultati straordinari. Nonostante le limitazioni economiche e la mancanza di opportunità che caratterizzavano la sua famiglia di origine (ha iniziato a lavorare presto e non ha fatto l’università, pur essendo la prima della classe nei 5 anni di Liceo linguistico frequentati) Meloni è riuscita a diventare la leader del suo partito, Fratelli d'Italia, vincendo la competizione interna e portandolo a diventare il primo partito della coalizione di centrodestra diventata maggioranza di governo. Il suo ingresso a Palazzo Chigi è stato infatti il risultato di un percorso di successo basato su una visione politica forte e una volontà incrollabile. Nonostante le critiche e le sfide, Meloni ha dimostrato di non essere ricattabile, come ha ribadito in passato, e ha fatto della sua determinazione una caratteristica centrale della sua leadership. Ha preso una decisione coraggiosa nella sua vita privata, decidendo di lasciare il suo compagno. Questa scelta è stata accompagnata da infelici episodi fuori onda di cui Giambruno – giornalista Mediaset – si è reso protagonista durante le pause del suo programma che conduceva (già conduceva) su Rete4. Questi fuori onda sono stati registrati e riproposti dal programma anch’esso in onda sulle reti Mediaset, in questo caso Canale5, Striscia la notizia. Nonostante il dolore e la difficoltà che questa situazione comporta, Meloni ha deciso di affrontare pubblicamente la vicenda, mostrando la sua coerenza. Al di là delle opinioni politiche, è importante riconoscere la forza e il coraggio di Giorgia Meloni nel prendere una decisione difficile. Proprio per queste ragioni la sua determinazione nel perseguire i suoi obiettivi politici e il suo coraggio nel fronteggiare le sfide personali sono meritevoli di plauso.

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La politica non dovrebbe essere una professione

di PIERANTONIO LUTRELLI - Nel contesto politico attuale, emerge una critica che mette in discussione l'idea che l'impegno politico debba coincidere con la vita fisica di un individuo. Questo articolo mira a esplorare tale questione, sottolineando la necessità di un rinnovamento per promuovere il coinvolgimento di nuove figure nella sfera politica.

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Nel nome di Verona, si intrecciano le storie di Tommasi e Volpati. Ex calciatori, uno è sindaco, l'altro medico dentista

di PIERANTONIO LUTRELLI - Verona, una città ricca di storia e di storie che si intrecciano. In questa affascinante cornice, due nomi emergono come simboli di integrità e talento: Damiano Tommasi e Domenico Volpati. Nonostante le loro diverse sfere d'azione, e la diversa generazione, entrambi rappresentano l'eccellenza e l'impegno sia durante la vita da calciatori e sia dopo. Domenico Volpati, nato a Novara il 19 agosto 1951 ha giocato nell’Hellas Verona dal 1982 al 1988. Ha lasciato un segno indelebile nel calcio veronese, ovviamente e soprattutto grazie al fatto che è stato tra i vincitori dello scudetto nel 1985. Era il mitico Verona allenato da Osvaldo Bagnoli che predicava catenaccio e verticalizzazioni improvvise che davano vita a contropiedi micidiali. A vittorie inaspettate. In quell’anno tutti fecero i conti con il Verona. Erano gli anni del libero staccato dietro la difesa. Erano gli anni in cui il calcio aveva ancora il sapore nostrano della fatica e della normalità. Il calcio che sfornava fuoriclasse all’oratorio e nei campi sterrati della provincia italiana. In questo contesto il nostro Volpati ha mostrato una dedizione inesauribile verso il calcio. Nonostante fosse già un veterano a 34 anni, ha vinto lo scudetto con la squadra scaligera, dimostrando che l'età è solo un numero quando si è guidati dalla passione e dalla determinazione. La sua presenza in campo era sinonimo di esperienza e saggezza, un faro per i giovani talenti che lo circondavano. E in quegli anni, a 34 anni si era dei “vecchietti” a fine carriera. Volpati aveva forza ed energia. Era un mediano difensivo senza pretese apparentemente, ma invece si fece valere. A differenza di molti ex calciatori non ha avuto uno sbocco nel mondo del calcio. Ha invece deciso di laurearsi in medicina, e poi specializzandosi in odontoiatria, si è trasferito a Termeno in provincia di Bolzano dove per 28 anni ha svolto l'attività di dentista fino al 2019. Ma un medico lo è per tutta la vita. Così nel 2021, vista la necessità di medici vaccinatori per la pandemia in atto, ha ripreso volontariamente il servizio presso il centro vaccinale sul Lago di Tesero. Damiano Tommasi, invece, ha lasciato il suo segno sia nel mondo del calcio che nella sfera politica. Nato a Negrar di Valpolicella il 17 maggio 1974 a 12 Km da Verona, dopo una brillante carriera da calciatore, coronata dal titolo di campione d'Italia con la Roma nel 2001, ha deciso di intraprendere una nuova sfida: la politica. Il suo impegno e la sua dedizione lo hanno portato nel 2022 a sconfiggere con il 53% dei voti al ballottaggio, il sindaco uscente Federico Sboarina, avversario di centrodestra nelle elezioni comunali di Verona, diventando a sua volta il sindaco della città. La sua integrità e la sua passione per il servizio pubblico sono un esempio per tutti coloro che credono nel potere del cambiamento e dell'onestà. In precedenza, aveva svolto il ruolo di presidente nazionale dell’Associazione Italiana calciatori, carica detenuta per molti anni dal mitico Sergio Campana. Tommasi nel campionato 2000-2001, quello dello scudetto con Fabio Capello, fece una stagione strepitosa. Fu il migliore della Roma per rendimento, correva, rubava palloni, costruiva, faceva goal, assist, spogliatoio, gruppo e tutto questo con la serietà che in un ragazzo di 27 anni sorprendeva. Un ragazzo pulito. Una persona che al solo guardarlo in faccia ti ispirava fiducia. Di quelli a cui lasceresti le chiavi di casa senza pensarci due volte appena lo conosci. Di quelli che pur potendosi permettere tutto ha mantenuto i piedi per terra. E oggi alla soglia dei cinquant’anni è un marito e un padre premuroso con i suoi sei figli. Soprattutto un sindaco attento. Nella terra di Zaia, in cui la Liga è fortissima, solo una persona brava e famosa come il Damiano romanista poteva far vincere il centrosinistra alle comunali. Bella storia. Se da sindaco mostra la stessa correttezza e serietà che ha adottato in campo, i cittadini possono dormire sonni tranquilli. Volpati e Tommasi, Domenico e Damiano, due ragazzi della provincia italiana che nella vita hanno dimostrato che pur amando il calcio visceralmente, si possa andare oltre e servire il prossimo con onestà e versatilità anche in altri ambiti. In entrambi questi uomini, l'impegno, la dedizione, l'integrità e il rispetto sono cardini fondamentali della loro esistenza. Sia Volpati che Tommasi hanno dimostrato di essere non solo grandi talenti nelle rispettive aree di competenza, ma anche persone di grande umanità e generosità. Entrambi hanno messo il loro talento e la loro passione al servizio della comunità. Tante similitudini fra i due: Volpati non è di Verona ma ha vinto lo scudetto a Verona, Tommasi che è di Verona ha vinto lo scudetto a Roma, ma a Verona è tornato a fare il sindaco. Due bravi ragazzi talentuosi e di fatica, seri e rispettosi del prossimo, persone perbene e vere perle della storia del nostro calcio. In una sola parola: un esempio.

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Il calcio come veicolo di socializzazione, riscatto e unione nazionale: l'arte cinematografica di Paolo Sorrentino e l'esultanza di Sandro Pertini

di PIERANTONIO LUTRELLI - Il calcio rappresenta un grande veicolo di socializzazione, riscatto e unione nazionale. Va oltre il rettangolo di gioco. Molto oltre. Finisce ovunque. Anche al cinema di qualità. Basti pensare a Paolo Sorrentino, regista napoletano e grande tifoso di Maradona, che ha dedicato il suo film del 2021 "È stata la mano di Dio" al leggendario calciatore argentino. Questa pellicola, presentata alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, racconta la storia di una giovane promessa del calcio napoletano e celebra l'importanza del calcio nella vita delle persone. Il calcio è immenso. Basta ricordare che un momento significativo che ha dimostrato il potere di questo sport di unire il popolo italiano è stata la vittoria della Nazionale italiana nel Mondiale del 1982. Durante la finale al Santiago Bernabeu di Madrid, il Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, un ex partigiano e uomo di sinistra, ha esultato con entusiasmo per la vittoria dell'Italia per 3-1 contro la Germania. Quel gesto ha dimostrato come il calcio possa superare le differenze ideologiche e creare un senso di unità nazionale. Il calcio non è solo una distrazione, ma un mezzo di socializzazione e riscatto. Durante le grandi competizioni internazionali, come i Mondiali, le persone di diverse estrazioni sociali e politiche si ritrovano unite nello stesso entusiasmo e nella stessa passione per la propria nazionale. Questo sport è in grado di superare le divisioni e creare un senso di appartenenza e solidarietà. Tornando a Sorrentino, con la sua abilità cinematografica, ha catturato l'essenza di questa passione calcistica e ha trasferito emozioni profonde attraverso il suo film. Ha dimostrato come il calcio possa essere un veicolo di riscatto e unione, celebrando l'eredità di Maradona e il suo impatto sulla società e sul calcio italiano. Non vi è dubbio alcuno che il calcio rappresenta molto più di uno sport. Il film di Paolo Sorrentino "È stata la mano di Dio" e l'esultanza di Sandro Pertini nel Mondiale del 1982 sono esempi di come il calcio possa superare le barriere sociali e politiche, unendo le persone in momenti di gioia e coesione nazionale.

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Il potere del segretario nazionale: il sistema elettorale italiano e la mancanza di autonomia alla base dei partiti

di Pierantonio Lutrelli - Negli ultimi anni, è emerso un fenomeno preoccupante all'interno dei partiti politici italiani: la tendenza a evitare di scontentare il segretario nazionale. Questo accade perché coloro che si mettono contro il leader rischiano di essere esclusi dalle future candidature. Questo sistema ha radici profonde nel contesto elettorale italiano, caratterizzato da liste bloccate senza preferenze e collegi uninominali, dove il potere decisionale si concentra principalmente nelle mani dei leader e della capitale, Roma. Dall'entrata in vigore del sistema elettorale attuale nel 2006, (da Porcellum a Rosatellum cambia solo la quota marginale dei collegi) la voce dei cittadini all'interno dei partiti politici è stata notevolmente ridimensionata. La base ha poco o niente potere decisionale sulle scelte e sulle candidature, mentre i leader nazionali e i vertici dei partiti hanno il controllo quasi totale sul processo decisionale. Questa situazione solleva una serie di interrogativi sul funzionamento della democrazia interna ai partiti. Sebbene sia importante che i partiti siano organizzati e guidati da una leadership forte, è altrettanto fondamentale garantire la partecipazione attiva dei membri e la possibilità di influenzare le decisioni. Tuttavia, nel sistema attuale, la voce dei membri di base viene spesso soffocata da una cultura di conformità e obbedienza nei confronti del segretario nazionale. La ragione principale per cui questo sistema è ben accetto da tutti è la mancanza di incentivi per cambiare. I vertici dei partiti, inclusi i segretari nazionali, beneficiano enormemente da un sistema che consolida il loro potere e limita la concorrenza interna. Il mantenimento dello status quo garantisce loro un controllo stabile e una maggiore sicurezza nelle future elezioni. Tuttavia, questa situazione limita la rappresentatività dei partiti e sminuisce il ruolo dei membri di base. L'assenza di meccanismi di selezione democratica per le candidature può portare a una mancanza di diversità e ad una scarsa rappresentanza dei vari interessi all'interno dei partiti. Ciò può indebolire la democrazia interna e minare la fiducia dei cittadini nella politica. Per superare questa situazione, sarebbe necessario un cambiamento radicale nel sistema elettorale italiano, con l'introduzione di meccanismi di selezione delle candidature più inclusivi e trasparenti. Inoltre, sarebbe importante promuovere una cultura politica che valorizzi la partecipazione attiva dei membri di base e incoraggi la diversità di opinioni e la competizione interna. Il sistema elettorale italiano, con le sue liste bloccate senza preferenze e i collegi uninominali, contribuisce a creare un ambiente in cui i membri dei partiti tendono a evitare di scontentare il segretario nazionale per non compromettere le proprie opportunità di candidatura. Ciò limita la democrazia interna e la rappresentatività dei partiti, e richiede un dibattito approfondito sulla necessità di riforme per garantire una maggiore partecipazione e un sistema politico più inclusivo. 

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Perché Neymar per me è il Numero 1

di PIERANTONIO LUTRELLI - Un calciatore deve infiammare il pubblico. Neymar ne è capace. Tutti noi quando abbiamo iniziato a giocare a calcio abbiamo sempre ammirato i più bravi tecnicamente. Quelli capaci di dare del tu alla palla. Chiaro che il calcio è un gioco collettivo. I tanti interessi economici che vi ruotano intorno impediscono a volte di prediligere aspetti romantici. A me piace immaginare un calcio che forse non esiste più. Non importa. Contano i risultati di bilancio. Le bacheche. Le vittorie. Certo. Al pubblico che corre allo stadio o si abbona alle payTv nessuno ci pensa. I tifosi esultano e festeggiano solo se si vince. Legittimo. Sarà che sono tifoso di una squadra, la Roma, che vince poco - pochissimo direi - ma da sempre ho orientato la mia visione del calcio sullo spettacolo che questi è capace di offrire. A quello che può dare anche senza un campionato o una coppa vinta. Mi annoio quando una gara annoia. Non ci posso far nulla. Mi sono divertito di più con la Roma di Totti e Cassano senza trofei che con l'Italia vincitrice del mondiale del 2006. Neymar, per tornare a lui, rappresenta questa filosofia: il fuoriclasse che rende felici le persone che hanno pagato il biglietto. Devo essere sincero ne ho visti tanti di fenomeni, ce ne sarebbero e un giorno ne parliamo, ma come questo calciatore pochi. Eppure Maradona l'ho visto giocare, Ronaldo il fenomeno anche. Messi in tv. Ronaldinho mi piaceva molto non c'è dubbio. Mi piaceva Zidane, anche più di Totti. Ecco l'ho detto. Il Brescia di Roberto Baggio era fantastico. Non ha vinto niente, ma aveva una magia. Un perché. Il Brasile sempre. Tranne quello del '94 eppure ha vinto la Coppa del Mondo. Romario era accettabile, Bebeto era improponibile. Altra storia il Brasile 1982. L'Italia fantastica li ha battuti 3-2. Un sogno. Quel Brasile aveva una flotta di centrocampisti assortiti da paura: Socrates, Falcao, Cerezo, Junior, Zico ed Eder. Fate voi che squadrone. Vi invito a guardare Neymar nei particolari. E' furbo. Non subisce facilmente fallo. Gioca la palla a terra e salta 6-7 avversari come birilli. Forte fisicamente al punto da non temere falciate alcune. Uno spettacolo.

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Carlo Ancelotti, un allenatore leggendario

Carlo Ancelotti, l'attuale allenatore del Real Madrid, è una figura iconica nel mondo del calcio. La sua lunga e vincente carriera, che lo ha visto guidare i più prestigiosi club europei, dimostra che l'età anagrafica non è un fattore determinante per essere un allenatore moderno e di successo. Ancelotti, nato il 10 giugno, (come me!) del 1959 continua a dimostrare la sua passione e dedizione in una nuova avvincente stagione alla guida del Real Madrid. Nonostante non abbia più “fame” di vittorie continua a mietere successi.  Ancelotti ha dimostrato di essere un allenatore moderno e all'avanguardia, capace di adattarsi e evolversi nel corso degli anni. Ha imparato a conoscere il calcio in diverse realtà geografiche, arricchendo il suo bagaglio tattico e strategico. Ancelotti ha acquisito una mentalità moderna grazie all'influenza di grandi allenatori come Nils Liedholm, Arrigo Sacchi e Fabio Capello che lo hanno guidato nel suo percorso. Prima di intraprendere la carriera di allenatore, Ancelotti ha brillato anche come giocatore. Durante il suo periodo alla Roma, è stato un centrocampista generoso ed infaticabile. Ha fatto parte di uno dei reparti di centrocampo più forti di sempre, insieme a Conti, Falcao e Cerezo. Insieme, hanno portato la Roma in finale di Coppa dei Campioni, lasciando un segno indelebile nella storia del club. Ancelotti ha vissuto un momento cruciale nella sua carriera quando, all'età di 22 anni, ha subìto un grave infortunio al ginocchio durante una partita contro la Fiorentina nel 1981. Casagrande lo sfiora, ma nulla di che. Carletto cade a terra e si tiene il ginocchio con due mani. Il dolore e la disperazione si sono fatti sentire, ad un certo punto si era sentito “crack” e le urla “il ginocchio”, “mi è uscito il ginocchio” con Falcao il primo a soccorrerlo. La diagnosi confermò la gravità dell’episodio percepita da tutti: rottura dei legamenti crociati. Ancelotti ha dimostrato la sua resilienza e determinazione nel superare l'ostacolo, ha trovato la forza di tornare in campo e continuare a giocare ai massimi livelli. Ha dimostrato il suo valore anche come allenatore, guadagnando successo in tutte le città europee in cui ha lavorato. Dal Milan al Chelsea, dal Paris Saint-Germain al Bayern Monaco e ora al Real Madrid, ha lasciato il segno in ogni club. Ha vinto numerosi trofei e ha creato squadre di grande valore, dimostrando la sua abilità nel gestire giocatori di talento e nel creare un ambiente di successo.

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De Laurentiis, il burbero che aveva ragione: il Napoli vince il quarto scudetto

di PIERANTONIO LUTRELLI - Napoli ci credeva. Napoli ci sperava. Ma forse nemmeno il più ottimista dei tifosi avrebbe immaginato che, nel giro di tre anni, la squadra azzurra avrebbe issato al cielo per ben due volte il tricolore. Dopo la magia di Maradona negli anni ’80, è toccato al “presidente burbero”, Aurelio De Laurentiis, scrivere nuove pagine nella storia partenopea. Con lo scudetto 2025, sono quattro i titoli della storia azzurra: due con Diego, due con Aurelio. Eppure, non è stato un cammino lineare. De Laurentiis ha spesso diviso, più che unito. Ha mangiato allenatori come fossero antipasti domenicali, ha rivoltato le rose come calzini, ha fatto piazza pulita anche quando tutto sembrava andare bene. Spalletti se n’è andato da campione, eppure via. Garcia? Un lampo. Mazzarri-bis? Esperimento fallito. Ma lui, il presidente, ha sempre tirato dritto. Ostico, ruvido, impopolare, ma visionario. Dietro le smorfie e le polemiche, De Laurentiis ha costruito un impero con metodo e ossessione. Il terzo scudetto, quello del 2023 con Osimhen e Kvaratskhelia protagonisti, era stato accolto come una favola. Ma il quarto, conquistato con una rosa rivoluzionata e l’ennesimo tecnico nuovo in panchina, è il suggello della sua strategia. Chi lo criticava per il suo “cinema” – in tutti i sensi – oggi deve ammettere che la sceneggiatura era giusta. Ha rilanciato il settore giovanile, costruito una società sana e patrimonializzata, ha investito dove serviva e tagliato dove necessario. In un calcio italiano spesso convalescente, il Napoli di De Laurentiis è diventato un modello industriale e sportivo. Maradona rimane il santo laico, il fuoriclasse che ha dato i primi due tricolori. Ma oggi, in bacheca, ci sono altri due scudetti. Non portano la firma di un 10 argentino, ma quella di un produttore testardo che a modo suo ha riscritto la storia. E allora, volenti o nolenti: ha avuto ragione lui.

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Ronaldo il Fenomeno: il marziano che ha riscritto le leggi del calcio

di PIERANTONIO LUTRELLI - In ogni epoca del calcio, c'è un nome che brilla più degli altri. Per i nostri genitori o i nostri nonni fu Pelé, l’uomo che con grazia, potenza e istinto felino regalò al Brasile tre Coppe del Mondo (1958, 1962, 1970). Per quelli della mia età fu Diego Armando Maradona, il genio ribelle, il poeta del pallone, l’eroe di Napoli e dell’Argentina, capace di segnare il gol del secolo e, con la “Mano de Dios”, scrivere una delle pagine più iconiche della storia del calcio. Ma per chi ha vissuto gli anni ’90 e i primi 2000, per chi ha visto il calcio con gli occhi sgranati di un bambino o con l’anima passionale di un tifoso, il più grande di tutti è stato uno solo: Ronaldo Luís Nazário de Lima. Il Fenomeno. Il talento che non sembrava umano. Infatti Ronaldo non era un calciatore. Era un’esplosione di forza, grazia e tecnica che sembrava piovuta da un altro pianeta. A soli 17 anni incantava al Cruzeiro, poi il salto in Europa: il PSV Eindhoven, e subito dopo un Barcellona folgorato dal suo talento. In una sola stagione in blaugrana, fece 47 gol in 49 partite. Numeri irreali, ma non erano solo le statistiche a renderlo leggenda: era il modo in cui segnava, saltando portieri, disintegrando difese intere, con una naturalezza che faceva sembrare il calcio il gioco più semplice del mondo. Poi arrivò l’Inter. E fu amore. Un amore totale, passionale, a volte doloroso. A San Siro Ronaldo non era solo un attaccante: era l’uomo che metteva paura a ogni difensore del campionato più difficile del mondo. Nesta, Maldini, Cannavaro: tutti hanno confessato, anni dopo, che affrontare Ronaldo era come cercare di fermare un uragano con le mani. “Partiva dopo e arrivava prima”, dicono. Quel doppio passo, quella progressione, quel controllo di palla in corsa a velocità disumana, rendevano inutile ogni tentativo di fermarlo. Ma anche gli dei cadono. Il ginocchio crolla, la carriera si interrompe, il mondo resta col fiato sospeso. L’Inter lo aspetta. Moratti lo coccola come un figlio. Ma quando Ronaldo torna, ha bisogno di voltare pagina. Va al Real Madrid, ai Galácticos. E lì, accanto a Zidane, Beckham, Figo e Roberto Carlos, dimostra che anche mezzo Ronaldo è più di qualsiasi altro intero. A Madrid incanta, segna, conquista. E in nazionale? Lì diventa immortale. Dopo il dramma del 1998, nel 2002 è lui il protagonista assoluto: 8 gol e la Coppa del Mondo, con una doppietta in finale contro la Germania. Ronaldo è di nuovo in cima al mondo. Ronaldo non è stato solo numeri, non è stato solo trofei. È stato emozione pura. È stato l’attesa prima che toccasse palla. Il boato del pubblico mentre partiva in corsa. Gli avversari lo ammiravano in silenzio. È stato l’idolo di una generazione intera, l’unico che metteva d’accordo tutti: tifosi, tecnici, avversari.Ha lasciato il segno ovunque: al Cruzeiro, al PSV, al Barcellona, all’Inter, al Real Madrid, al Milan, e ovviamente con la camiseta verdeoro, con cui ha vinto due Coppe del Mondo (1994 e 2002) e ha segnato 62 gol in 98 presenze. Oggi, mentre si parla di Messi, di Cristiano Ronaldo, di Haaland, di Mbappé, il nome di Ronaldo il Fenomeno continua a evocare qualcosa di diverso. Non solo grandezza, ma magia. Un calciatore che ha giocato con il corpo di un atleta e l’anima di un artista. Che ha saputo essere velocità e potenza, ma anche intelligenza e sensibilità calcistica. Che ha saputo emozionare, e in fondo, è questo che rende eterno un campione. Ronaldo è stato il calcio nella sua forma più pura. Il Fenomeno. Per sempre.

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Un Papa americano: la sorpresa di Leone XIV

di PIERANTONIO LUTRELLI - Chi se lo aspettava davvero? In pochi, forse nessuno. Eppure la fumata bianca dell’8 maggio ha portato con sé un nome che ha sorpreso il mondo intero: Robert Francis Prevost, statunitense, agostiniano, missionario, curiale. È lui il nuovo Pontefice, il primo Papa americano nella storia della Chiesa, e ha scelto un nome solenne e ricco di storia: Leone XIVNato a Chicago nel 1955, ma con radici italiane, francesi e spagnole, Prevost ha percorso un cammino lontano dai riflettori: anni trascorsi tra le periferie del Perù, poi il ritorno a Roma con incarichi delicati nella Curia. Un uomo di equilibrio, spiritualità profonda e visione pastorale. Ma nessuno lo dava tra i favoriti del conclave. Il suo nome non campeggiava nei pronostici, nei commenti, nelle analisi. E proprio per questo, la sua elezione assume oggi un valore emblematico: è il segno di una Chiesa che guarda oltre i confini, che osa, che sceglie un volto nuovo per tempi nuovi. Leone XIV si presenta al mondo come simbolo di un ponte tra le Americhe e l’Europa, tra le radici della tradizione e il respiro missionario del presente. La sorpresa è grande. Ma, a ben vedere, forse necessaria.

 

Prevost, un predestinato: il destino scritto nel nome

 

Ora che il conclave ha parlato e il mondo ha conosciuto Papa Leone XIV, appare chiaro a molti ciò che forse era sotto gli occhi da sempre: Robert Francis Prevost era un predestinato. Non solo per la sua vocazione religiosa, maturata in una famiglia profondamente cattolica, né soltanto per la sua lunga esperienza missionaria in Perù o per gli incarichi di fiducia ricevuti nella Curia romana. Ma anche per quel cognome, “Prevost”, che in francese antico indicava proprio il capo della comunità, il primo tra gli uomini, il custode di un ordine. Un termine che nelle radici medievali aveva sfumature civili e religiose insieme, quasi a evocare già allora un pontefice che avrebbe saputo coniugare governo e servizio, autorità e umiltà. Oggi quel nome risuona con un significato nuovo e profondo: Prevost è il “primo”, il prescelto, chiamato a guidare la Chiesa in tempi complessi e appassionanti. Papa Leone XIV porta con sé il peso e la luce di un’eredità storica, ma anche la forza tranquilla di chi, forse, aveva il proprio destino inciso fin dall’inizio.

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Inter leggenda: 4-3 al Barcellona e finale di Champions

di PIERANTONIO LUTRELLI- Un gol al 93’, un altro al 99’. Lacrime, paura, gloria. L’Inter batte il Barcellona 4-3 ai supplementari e conquista una storica finale di Champions League, al termine di una doppia sfida spettacolare e folle: 7-6 il risultato complessivo. Due partite che sembrano uscite da un film, un’epica tutta nerazzurra che ricorda il celebre 4-3 dell’Italia sulla Germania nel 1970. Anche allora una semifinale. Anche allora una battaglia. Anche allora un finale da leggenda. La serata inizia come nei sogni. Al 21’, Lautaro Martínez sblocca il match, poi Çalhanoğlu firma il 2-0 al 45’+1 su rigore. Il Meazza esplode. Ma nella ripresa, il Barcellona si trasforma e in sei minuti ribalta tutto: prima Eric García al 54’, poi Dani Olmo al 60’. Quando al minuto 87 Raphael infila il gol del 3-2, il sogno sembra svanire. E il palo colpito dai blaugrana a dieci dalla fine è un presagio che gela il sangue. Poi, la scintilla. Francesco Acerbi trova il gol del pareggio al 90’+3: una zampata disperata, rabbiosa, l’ultima azione utile prima della fine. Un gol che vale oro, che riporta l’Inter in corsa e trascina la partita ai supplementari. Ed è lì, in quel tempo sospeso tra fatica e gloria, che si compie il destino. Davide Frattesi, al minuto 99, trova la rete del 4-3. È il gol della liberazione, il sigillo che porta l’Inter a Monaco di Baviera. Il Barcellona tenta il tutto per tutto, ma i nerazzurri resistono fino alla fine. Tredici gol in due partite, sette dell’Inter, sei del Barça. Due squadre votate all’attacco, senza calcoli, senza paura. Una semifinale che ha avuto il sapore della finale anticipata, giocata su ogni metro del campo, a viso aperto, tra fuoriclasse e nervi tesi. E se l’andata al Camp Nou era stata pirotecnica (3-3), il ritorno al Meazza è entrato nella leggenda. L’Inter ha avuto il vantaggio di giocare in casa il secondo round grazie a quel pareggio, ma ha dovuto guadagnarsi ogni centimetro di campo con i denti, fino all’ultimo secondo. Solo poche settimane fa, Simone Inzaghi era sulla graticola. Tre sconfitte consecutive, critiche, dubbi, voci di esonero. Oggi, lo stesso Inzaghi è a un passo dal diventare l’eroe di una Champions memorabile. Una lezione anche per chi osserva il calcio (e la vita) con giudizi troppo affrettati: serve tempo per costruire, serve equilibrio per valutare. E spesso non è solo una questione di risultati, ma di visione e coraggio. Tra i protagonisti di questa impresa nerazzurra ci sono anche tanti italiani: Acerbi, Frattesi, Barella. Non è più il tempo delle lamentele sui “troppi stranieri”. Il problema degli ultimi anni, per la Nazionale, è stato l’assenza di italiani pronti, davvero pronti, per palcoscenici importanti. Ora qualcosa sta cambiando. Finalmente tornano a farsi vedere calciatori italiani in grado di incidere nelle grandi notti europee. Ed è questa una notizia che fa ben sperare anche per il futuro della maglia azzurra, che ha tanto bisogno di nuove certezze. Nel 1970, dopo il 4-3 alla Germania, l’Italia si arrese al Brasile di Pelé e Rivelino. L’auspicio oggi è che l’Inter possa scrivere un finale diverso. Ma già ora questa squadra ha regalato ai suoi tifosi una notte da tramandare, una favola di orgoglio, sofferenza e riscatto. Perché il calcio è anche questo: un riflesso della vita, in cui nulla è mai davvero perduto.

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Noepoli: il paese che racconta la mia storia

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’era una volta Noja. È così che si chiamava un tempo l’attuale Noepoli (nella foto di basilicatawayglo.it), piccolo borgo lucano incastonato nel cuore del Parco Nazionale del Pollino. Il nome antico, probabilmente di origine greca o latina, custodisce la memoria di un luogo che ha attraversato secoli di storia, trasformandosi senza mai perdere la sua identità. Nel Medioevo, Noja fu terra di feudatari e baroni, mentre molto prima, sotto l’Impero Bizantino, rappresentava un avamposto spirituale e culturale. È da quell’epoca che nasce il culto della Madonna di Costantinopoli, icona sacra che ancora oggi è fulcro della devozione popolare e che ogni anno, il 6 agosto, viene celebrata con una solennità che attraversa generazioni. Il giorno prima, il 5 agosto, la festa era già nell’aria. C’era la fiera: un evento attesissimo, un vero punto di riferimento per chi viveva in una civiltà contadina, agropastorale, dove l’arrivo delle bancarelle rappresentava una finestra sul mondo. Prima dell’era di Amazon, dei centri commerciali e della distribuzione capillare, la fiera era l’unico momento dell’anno in cui si poteva comprare qualcosa di nuovo – spesso un vestito o un paio di scarpe – da indossare con orgoglio proprio il giorno della festa. Era un rito collettivo e personale insieme, segno di appartenenza e rinnovamento. Noepoli non è solo un paese. È il paese di mia madre, Filomena Miraglia, il luogo delle mie origini più vere. Quando da Bergamo – dove sono nato nel 1971 – tornavo ogni estate, fino al 1982, trovavo qui un mondo diverso, lento, autentico, profumato di fieno e di legna, pieno di visi familiari e mani callose, sincere. Ricordo le grandi tavolate con i parenti, i sapori forti e veri della tradizione: soppressate conservate con cura per noi “forestieri”, fatte assaggiare con orgoglio, come un dono prezioso. Il vino fatto in casa, che anche se non ti piaceva dovevi dire che era buono, perché rifiutarlo era quasi un’offesa. E poi il bar del paese, dove si faceva la fila per un ghiacciolo, dove si chiacchierava aspettando di fare una telefonata dal posto pubblico, in un’epoca in cui le notizie viaggiavano piano, ma i legami erano forti. C’era, in quegli anni, una vita lenta, fatta di piccoli gesti, di valori condivisi, di comunità. Una vita che oggi sembra lontana, quasi perduta, ma che resta viva dentro chi l’ha vissuta davvero. Nel 1863, il paese cambiò nome, diventando Noepoli – “nuova città” – quasi a segnare un nuovo inizio. Eppure, in fondo, Noepoli è rimasta fedele a se stessa: un luogo sospeso tra la storia e il cuore, tra la fede e la memoria. Oggi, Noepoli è meta di chi cerca l’autenticità, il silenzio, il ritorno all’essenziale. E per me resta un luogo dell’anima, dove tutto è cominciato. Ogni pietra, ogni angolo, ogni sorriso è un tassello della mia infanzia, della mia identità, di ciò che sono.

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Claudio Ranieri, l’ultimo signore del calcio saluta: un addio da leggenda

di PIERANTONIO LUTRELLI - A quasi 74 anni, Claudio Ranieri ha deciso: a fine stagione dirà addio al calcio giocato, chiudendo un cerchio iniziato oltre cinquant’anni fa sui campi di periferia. Lo farà con lo stile che da sempre lo contraddistingue: quello di un uomo elegante, umile, concreto, capace di imprese straordinarie senza mai perdere la semplicità. E ancora una volta, come sempre nella sua carriera, lo fa per amore. Amore per la sua Roma, che da tifoso ha accettato di guidare in corsa, in una stagione complicata, trascinandola a un passo da un sogno europeo e regalandole vittorie pesanti come quella, epica, conquistata a San Siro contro l’Inter. Ranieri non si è mai stancato di compiere imprese. Dai trionfi internazionali al miracolo Leicester – forse il più romantico della storia recente del calcio – il tecnico romano ha saputo riscrivere il concetto stesso di “squadra”: sacrificio, compattezza, spirito di gruppo. In Premier League ha lasciato un segno indelebile, conquistando il titolo con le Foxes nel 2016, sfidando ogni pronostico e facendo innamorare milioni di tifosi in tutto il mondo. Ma la sua impronta è stata forte ovunque: in Spagna, in Francia, in Italia, con promozioni e rilanci di squadre date per finite. Eppure, Ranieri è rimasto sempre lo stesso. Un uomo capace di esultare senza arroganza, di parlare senza alzare i toni, di vincere senza infierire. “Dobbiamo uscire a testa alta”, diceva ai suoi ragazzi. E loro, ieri come oggi, lo hanno seguito. Alla Roma è entrato ancora una volta in punta di piedi, in una stagione complicata, portando con sé il rispetto di uno spogliatoio intero e il sostegno di una tifoseria che in lui vede l’ultimo romantico del calcio. A San Siro, Ranieri ha regalato una lezione di calcio e di cuore: ha battuto l’Inter capolista con coraggio e strategia, mettendo in campo una Roma compatta, determinata, capace di osare senza snaturarsi. “Vincere 1-0 è un’arte”, ha detto sorridendo. E in effetti, chi meglio di lui ha saputo rendere epica la concretezza? Il futuro? “Se mi manca la panchina, andrò al giardinetto”, ha detto con ironia dopo aver già consegnato il tesserino a Coverciano. Nessun ripensamento, nessun dramma. Solo gratitudine e dignità. E mentre il calcio cambia pelle, rincorrendo mode e social, Ranieri lascia con la testa alta e con il rispetto universale che solo i grandi sanno guadagnarsi. Il suo è un addio vero, sentito, come ogni passo della sua lunga carriera. Claudio Ranieri, l’ultimo signore del calcio, ci lascia in eredità qualcosa di raro: la certezza che si può vincere senza mai perdere l’anima.

Grazie, Mister.

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Dalla 219 di Pomigliano al mito: Totò Di Natale, genio e umanità

di PIERANTONIO LUTRELLI - C’è un ragazzo che nasce e cresce nella 219 di Pomigliano d’Arco, quartiere difficile dove il pallone è più di un gioco: è speranza, è sogno, è futuro. Quel ragazzo si chiama Totò Di Natale, e con il pallone ai piedi disegna poesia tra le strade polverose, mostrando da subito una tecnica sopraffina, un talento naturale che sfida ogni barriera. Di Natale non è uno da riflettori accecanti. Non è il protagonista delle prime pagine, eppure chi sa di calcio lo riconosce subito: ha il baricentro basso, la leggerezza degli aeroplanini, la concretezza di chi ha imparato a difendere il pallone come si difende la vita. La sua traiettoria ricorda quella di Vincenzo Montella, compagno di terra e di destino: entrambi partono da Pomigliano, entrambi cercano fortuna lontano, e trovano il trampolino a Empoli, una piccola piazza capace di credere nei sogni grandi. A Udine Totò trova la sua casa, il suo regno silenzioso. Lì, lontano dalle sirene dei grandi club, diventa un bomber implacabile, un punto fermo, un esempio. Segna, diverte, incanta. Al fantacalcio, chi scommette su di lui sa di aver trovato un tesoro: costa meno dei “grandi nomi”, ma regala molte più soddisfazioni. Di Natale è talento puro, ma è anche cuore immenso. Quando Piermario Morosini, suo compagno all’Udinese, muore improvvisamente lasciando sola la sorella disabile, Totò non esita: si prende cura economicamente e per sempre di lei, come se fosse parte della sua famiglia. Un gesto semplice, silenzioso, che racconta più di mille parole chi è Totò Di Natale. Nel parlare conserva il suo napoletano verace, la genuinità dello scugnizzo buono, la semplicità di chi non ha mai dimenticato da dove viene. E proprio per questo conquista: perché è autentico, sincero, vero. Oggi, mentre suo figlio rincorre il suo sogno tra i campi di Serie D, Totò Di Natale continua a rappresentare un modello raro: quello del campione che ha preferito la fedeltà alla gloria, l’essenza all’apparenza, il cuore al clamore. Perché nel calcio, come nella vita, non contano solo i trofei o i titoli sui giornali. Contano le persone. E Totò Di Natale resta uno di quei rari fuoriclasse che, anche senza clamore, ha saputo lasciare un segno incancellabile nella memoria di chi ama il calcio vero.

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Roberto Baggio, l’azzurro che portiamo nel cuore

di PIERANTONIO LUTRELLI - Ci sono calciatori che restano impressi nella memoria per i trofei vinti, per le maglie indossate, per i record infranti. E poi c’è Roberto Baggio, che ha lasciato un segno indelebile nei cuori degli appassionati di calcio, non solo per le sue imprese sul campo, ma per l’emozione che ha saputo trasmettere ogni volta che toccava il pallone. Ricordo ancora nitidamente la prima volta che lo vidi giocare: era il 17 settembre 1989, Napoli-Fiorentina al San Paolo. La Fiorentina era in vantaggio per 2-0 e uno dei gol fu una perla di Baggio: partì da lontano, dribblò quattro o cinque giocatori del Napoli e segnò un gol che sembrava uscito da un sogno. Quel giorno, nonostante la rimonta del Napoli guidata da un Maradona appesantito ma sempre geniale, capii che quel ragazzo con il codino aveva qualcosa di speciale. La carriera di Baggio è stata un viaggio attraverso le principali squadre italiane: Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter, Brescia. Eppure, quando pensiamo a lui, la prima immagine che ci viene in mente è quella della maglia azzurra della Nazionale. Come Gigi Riva prima di lui, Baggio è diventato il simbolo dell’Italia calcistica, più che di qualsiasi club. Il suo talento era puro, cristallino. Nonostante un grave infortunio al ginocchio a soli 18 anni, che oggi sarebbe stato più facilmente superabile grazie ai progressi della medicina sportiva, Baggio ha saputo reinventarsi, adattarsi, brillare. Dribbling fulminanti, calci piazzati millimetrici, visione di gioco superiore, una correttezza esemplare: mai una protesta, mai un fallo gratuito. Un vero signore del calcio. Il Mondiale del 1994 negli Stati Uniti è stato il suo apice e, al contempo, la sua croce. Trascinò l’Italia fino alla finale con prestazioni straordinarie, segnando gol decisivi contro Nigeria, Spagna e Bulgaria. Ma quella finale contro il Brasile, giocata da infortunato, si concluse con quel rigore calciato alto. Un momento che ancora oggi fa male ricordare, ma che non può oscurare la grandezza del suo percorso. Nel 2002, a 35 anni, dopo aver lottato per tornare in forma, sperava in una convocazione per il Mondiale in Corea e Giappone. Ma il CT Trapattoni decise diversamente. Una delusione che aggiunge un’ulteriore nota malinconica alla sua storia. Dopo il ritiro, Baggio ha scelto una vita lontana dai riflettori, dedicandosi alla famiglia, alla natura, alla sua azienda agricola. Un campione che ha preferito la semplicità alla mondanità, rimanendo nel cuore di tutti noi come l’emblema di un calcio fatto di passione, talento e umiltà. Oggi, se penso al più grande calciatore italiano di tutti i tempi, il mio cuore dice Roberto Baggio. Perché oltre ai numeri, ai trofei, ai gol, c’è l’emozione che ha saputo regalarci. E quella, non si dimentica.

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La vera lezione di Papa Francesco: contro il capitalismo predatorio, una Chiesa tra la gente

di PIERANTONIO LUTRELLI - Sin dal primo istante, da quel semplice “Fratelli e sorelle, buonasera” affacciato al mondo, Papa Francesco ha incarnato una visione radicale e necessaria della Chiesa: sobria, spoglia, vicina alla gente. Nessun anello dorato, nessun bastone pastorale vistoso, nessun palazzo principesco come residenza. Solo una Croce, una valigia di pelle consumata e il desiderio instancabile di essere “servo dei servi di Dio”. Ma questo stile non è stato solo un gesto. È stato un messaggio, un manifesto, un affondo potente contro le derive del capitalismo predatorio. Un sistema, ha denunciato più volte, che divora l’uomo, mercifica tutto, allarga le distanze, annienta il debole e idolatra il profitto. Papa Francesco non ha usato giri di parole. Ha definito il denaro “lo sterco del diavolo”. Ha criticato senza mezzi termini la finanza speculativa, l’economia dell’esclusione, il consumo sfrenato che brucia risorse e coscienze. Ha chiesto alla Chiesa di rinunciare a ogni forma di potere temporale che la allontana dagli ultimi. E, soprattutto, ha scelto per sé l’umiltà come abito, la semplicità come profezia. Nella sua visione, la Chiesa doveva tornare a essere “ospedale da campo”, non fortezza autoreferenziale. Doveva parlare con i poveri, non dei poveri. Doveva camminare con gli ultimi, non su tappeti rossi. Una Chiesa in uscita, che non teme di sporcarsi le mani, di stare nelle periferie, non solo geografiche, ma esistenziali. La scelta di rinunciare a simboli di potere, l’attenzione costante alle vittime dell’economia globale, la lotta per la dignità del lavoro e contro lo sfruttamento: tutto questo non è stato semplice buonismo, ma un atto profondamente politico, nel senso più nobile del termine. Un gesto che chiama ogni uomo e ogni donna a riflettere sul mondo che vogliamo costruire. Papa Francesco ci ha lasciato una lezione chiara: o l’umanità torna a mettere l’uomo al centro, o sarà la logica del profitto a disumanizzarci tutti. O riscopriamo il valore della sobrietà, o continueremo a vivere in un sistema che produce scarti umani. E ora che non c’è più, questa voce non deve spegnersi. Sta a noi custodirla, ripeterla, viverla. Non basta ammirare Francesco. Bisogna seguirne l’esempio.

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Il prossimo Papa? Forse è tempo di tornare in Italia

di PIERANTONIO LUTRELLI - È una riflessione che mi accompagna da tempo, e che oggi, in questo contesto così fragile e frastagliato, sento il bisogno di condividere: il prossimo Papa potrebbe — e forse dovrebbe — essere italiano. Da oltre quattro decenni la Chiesa ha guardato lontano, scegliendo papi provenienti da terre simbolicamente e strategicamente importanti. Prima Giovanni Paolo II, dalla Polonia, a segnare la fine della Guerra Fredda. Poi Benedetto XVI, dalla Germania, voce della teologia e del rigore. E infine Francesco, il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, portatore di un’umanità nuova, profetica, e profondamente pastorale. Ma oggi lo scenario è diverso. L’Europa non è più il centro del mondo, ma resta un nodo cruciale nel destino della Chiesa cattolica. È il continente in cui la fede arranca, ma in cui la domanda di senso, spesso silenziosa, è ancora viva. Un Papa europeo, capace di comprenderne le tensioni culturali, sociali e spirituali, potrebbe essere una risposta forte. E tra i Paesi europei, l’Italia — per tradizione, per centralità, per presenza nella Curia — si ripropone come candidata naturale. Se non sarà nuovamente la Germania (e dopo Ratzinger, sembra improbabile), perché non l’Italia? Il collegio cardinalizio offre profili di grande spessore. Alcuni, già oggi, emergono con chiarezza: Matteo Zuppi, il cardinale “di strada”, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI, voce inclusiva, instancabile costruttore di dialogo e pace. Pietro Parolin, il Segretario di Stato, figura solida, diplomatico di razza, che conosce ogni piega delle stanze vaticane. Mauro Gambetti, arciprete della Basilica di San Pietro, francescano con forte spiritualità e discrezione operosa. Pier Battista Pizzaballa (nella foto), patriarca latino di Gerusalemme, francescano bergamasco, con una lunga esperienza in Terra Santa. La sua profonda conoscenza del Medio Oriente e il suo impegno per il dialogo interreligioso lo rendono un candidato di rilievo. Non sono previsioni, ma possibilità. In fondo, i conclavi sorprendono sempre, e lo Spirito si muove libero. Ma l’idea di un Papa italiano oggi non è nostalgia: è, forse, una necessità. Perché la Chiesa, in un tempo così incerto, potrebbe aver bisogno di tornare simbolicamente “a casa”, per ripartire verso il mondo con nuovo slancio.

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Papa Francesco, l’ultimo silenzio il giorno dopo Pasqua: un addio che parla di resurrezione

di PIERANTONIO LUTRELLI

 

Papa Francesco è morto il 21 aprile 2025, il lunedì dell’Angelo. Un giorno apparentemente ordinario nel calendario civile, ma carico di significato nel cuore dei cristiani: è il giorno in cui il mondo, dopo aver celebrato la Resurrezione, inizia a vivere il tempo nuovo. Non è un dettaglio da poco. I simboli, nella vita di Jorge Mario Bergoglio, non sono mai stati semplici cornici. Fin dal primo istante del suo pontificato — quando si affacciò dalla loggia di San Pietro chiedendo al popolo di pregare per lui, inchinandosi — Papa Francesco ha fatto della sobrietà, del gesto profondo, della parola limpida la sua grammatica spirituale. E anche nella morte, questo Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, ha lasciato un segno che va oltre la cronaca. Se n’è andato il giorno dopo Pasqua, come a voler accompagnare il Risorto per l’ultima volta, in silenzio. Un passaggio discreto, ma fortissimo. La sua vita è stata un continuo Vangelo incarnato: dalla scelta del nome di Francesco, simbolo di povertà e pace, all’attenzione per gli ultimi, per il creato, per una Chiesa che non domina ma serve. In questo lunedì pasquale, mentre i cristiani del mondo intero ancora cantano “Cristo è risorto”, Francesco torna al Padre, quasi a dirci che la morte non è l’ultima parola. Come Gesù nel sepolcro, anche lui lascia dietro sé un vuoto pieno di promesse. Il suo testamento è la speranza. Una speranza che oggi non si spegne, ma si rinnova. Nel tempo in cui le parole si moltiplicano e il rumore del mondo sovrasta tutto, Francesco ci ha insegnato l’arte del silenzio che parla, del gesto che insegna, della fede che si piega per lavare i piedi. È stato un pastore che ha camminato davanti, ma spesso anche dietro, per lasciare che il popolo scoprisse la strada da sé. Ora, il giorno dopo Pasqua, il suo ultimo gesto è ancora una volta un messaggio: la vita ha senso solo se è donata. E la Resurrezione non è solo una promessa futura, ma una chiamata presente. A vivere da risorti, già ora, già qui.

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Nel silenzio del mattino è morto Papa Francesco

Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, è scomparso oggi all’età di 88 anni nella sua residenza a Casa Santa Marta, dopo un ricovero per una polmonite bilaterale. Il suo pontificato, iniziato nel 2013, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Chiesa e dell’umanità. E' stato un pontefice che ha segnato il nostro tempo con umiltà, coraggio e una visione di Chiesa aperta e misericordiosa

 

di PIERANTONIO LUTRELLI

Nel silenzio del mattino, alle sette e trentacinque, si è spenta una voce che parlava al cuore. Francesco, il Papa venuto da lontano, ha lasciato la terra per la casa del Padre. Dalla fine del mondo, con passo leggero, portò in Vaticano il profumo dell’Argentina, e con il nome del poverello d’Assisi, abbracciò i piccoli, i migranti, la terra ferita. Ha parlato di pace mentre il mondo urlava, ha denunciato l’ingiustizia con parole di Vangelo. Ha chiesto una Chiesa povera per i poveri, e con gesti semplici ha scosso i palazzi antichi. Ha camminato tra le periferie dell’anima, ha lavato i piedi, ha baciato le piaghe. Ha aperto porte che sembravano chiuse, ha dato voce a chi voce non aveva. Ora che il suo bastone è posato, resta il cammino tracciato nella polvere. Resta la carezza data ai dimenticati, resta il sorriso che sfidava la paura. E mentre la Chiesa piange e prega, il mondo intero gli renda grazie.

 

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Roma, emozione e passione: oltre il calcio, una metafora di vita

di PIERANTONIO LUTRELLI - Recentemente, allo Stadio Olimpico di Roma, si è respirata un'aria di profonda emozione durante la partita di Europa League contro l'Athletic Bilbao, dove la Roma ha trionfato con un gol segnato nei minuti di recupero. Questo evento non è solo una mera vittoria sportiva; rappresenta un momento di celebrazione per una città e una tifoseria che, nel corso degli anni, hanno vissuto alti e bassi, ma che continuano a sostenere con passione la propria squadra del cuore. La storia della Roma è scolpita nella memoria collettiva della capitale. Con soli tre scudetti, la Roma non è la squadra con il palmarès più ricco, ma la sua leggenda è fatta di icone immortali che hanno calcato il terreno di gioco e lasciato un'impronta profonda. Dalla classe di Paolo Roberto Falcao e Bruno Conti, passando per le gesta di Agostino Di Bartolomei e Roberto Pruzzo, fino ad arrivare ai moderni eroi del campo come Francesco Totti e Daniele De Rossi, ogni nome evoca un ricordo, una emozione, una storia da raccontare. Il “magico” Francesco Totti, capitano indiscusso per 25 anni, ha incarnato l’amore e la dedizione per la maglia giallorossa. Il suo legame con la Roma, unica squadra per cui ha militato, ha sfidato il tempo e i record, trasformandolo in un simbolo di lealtà e passione. Al suo fianco, uomini come Carlo Mazzone, che ha visto la nascita di Totti come calciatore, e l'eroico Claudio Ranieri, che torna alla guida della Roma portando con sé l'esperienza e la saggezza di chi conosce il calcio e la psicologia di ogni giocatore. Ma perché, oltre il risultato sul campo, essere tifosi della Roma è qualcosa di speciale? Perché, nonostante sia una squadra non abituata ai trionfi, l'amore dei suoi tifosi è inguaribile. È una passione che va oltre il semplice conteggio dei trofei. Questo è il cuore della cultura romanista: una celebrazione della bellezza del gioco, dell'unità tra i tifosi e della magia di un momento condiviso. Che si tratti di cantare "Roma Roma Roma" o "Mai sola", c'è una connessione profonda tra il popolo giallorosso e la propria squadra, un legame che si fortifica ogni volta che le bandiere giallo-rosse sventolano sugli spalti. Essere romanisti significa anche accettare la sofferenza e l'adrenalina che accompagnano una stagione. È la consapevolezza che non sempre si vince, ma si gioca con il cuore e si gode del viaggio. La vittoria, quando arriva, sa di autentica magia, come nel 2001 al Circo Massimo, dove oltre un milione di persone festeggiò per il titolo conquistato. In un mondo che spesso celebra il successo immediato, i tifosi della Roma ritrovano significato nel tifo, nella passione e nella comunità che si forma attorno a essi. Il ritorno di Ranieri non è solo un colpo di scena nel mondo del calcio, ma un richiamo al passato che fa rivivere la storia del club. La sua esperienza e la sua umanità gli permettono di guidare la squadra verso traguardi sempre più ambiziosi, ma senza perdere di vista l’importanza di mantenere il giusto spirito. Questo è ciò che faremmo bene a ricordare anche nella vita: il vero successo non risiede esclusivamente nei trofei o nei risultati, ma nella capacità di rialzarsi, di lottare e di rimanere uniti, indipendentemente dagli ostacoli. Essere tifosi della Roma rappresenta una metafora potente della vita. È un invito a vivere con passione e autenticità, a trovare gioia nei piccoli momenti e a costruire legami profondi. Così come nel calcio, nella vita non è importante solo arrivare al traguardo, ma anche il percorso, le esperienze e le emozioni che rendono ogni passo significativo. La Roma è molto più di una semplice squadra: è una scuola di vita che insegna come affrontare le sfide con coraggio e determinazione. Per questo, ogni volta che i giallorossi scendono in campo, lo fanno non solo per vincere, ma per regalare un'esperienza magica a tutti i loro tifosi. E, in fondo, è proprio questo che conta.

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Gli 83 anni di Dino Zoff: una leggenda del calcio italiano

di PIERANTONIO LUTRELLI - Il 28 febbraio 1942, in un piccolo paese del Friuli, Mariano del Friuli in provincia di Gorizia, nacque un uomo che sarebbe diventato uno dei simboli indiscussi del calcio italiano: Dino Zoff. Ieri, Zoff ha compiuto 83 anni, e la sua figura continua a brillare nella memoria calcistica, non solo come portiere della Juventus, ma soprattutto come capitano e allenatore della Nazionale in cui ha lasciato un’impronta indelebile. Dino Zoff non è solo un nome, è una leggenda vivente, un autentico monumento dello sport italiano. Cresciuto in un'epoca in cui il calcio non conosceva le comodità moderne della preparazione atletica, Zoff ha dimostrato che con dedizione e lavoro duro si possono raggiungere vette straordinarie. Il suo debutto in Serie A avvenne nel 1961, e da lì iniziò un percorso che lo avrebbe visto collezionare oltre 550 presenze nel massimo campionato italiano e conquistare trofei nazionali e internazionali, tra cui la Coppa del Mondo del 1982. La sua carriera come portiere è un esempio di maestria tecnica e leadership. Zoff era noto per la sua calma infinita, la sua abilità nel coordinare la difesa e la sua presenza rassicurante tra i pali. Queste qualità hanno alimentato la sua reputazione di uno dei migliori portieri di tutti i tempi. Nonostante i suoi punti deboli, come la vulnerabilità ai tiri da fuori area, il suo senso di posizione e la prontezza di riflessi lo hanno reso una muraglia per gli attaccanti avversari. La leggendaria partita Italia-Brasile ai Mondiali del 1982 è un capitolo fondamentale della sua carriera, dove ha guidato la squadra verso una storica vittoria, bloccando i tentativi dei più temibili giocatori brasiliani. Al Brasile bastava anche il pareggio per andare in semifinale e l'Italia riuscì a vincere contro i pronostici della vigilia con una partita memorabile in cui Zoff fece la sua parte bloccando sulla linea un colpo di testa di Oscar. Ma non solo in quella gara fu memorabile. Il culmine della carriera di Zoff si è manifestato in quel trionfo mondiale, dove alzò il trofeo come capitano della Nazionale italiana. Quella vittoria ha rappresentato molto di più di un semplice trofeo; era un simbolo di unione per il popolo italiano, e Zoff divenne un simbolo di orgoglio nazionale. Le immagini di lui al fianco di Sandro Pertini e all'allenatore, Enzo Bearzot mentre festeggiavano insieme, restano impresse nella memoria collettiva, rappresentando un periodo di grande gioia e unità. Dopo aver chiuso le porte di un'illustre carriera da calciatore, terminata nel 1983 dopo la sconfitta ad Atene contro l'Amburgo nella finale di Coppa dei campioni, Dino Zoff ha intrapreso un cammino da allenatore, inizialmente con la Juventus e poi guidando la Nazionale italiana e contribuendo a preparare le future generazioni. Tuttavia, la sua avventura sulla panchina della Nazionale è stata segnata da una dose di sfortuna: nel 2000, la squadra era in vantaggio nella finale degli Europei, ma subì un drammatico pareggio negli istanti conclusivi si vide soffiare la coppa al golden goal dalla Francia. Nonostante il rammarico di quell'episodio, Zoff continuò a dare il suo contributo, allenando con grande competenza la Lazio e ponendo le basi per una squadra di successo in quelle che furono poi le stagioni dei successi di Sven Goran Eriksson. La carriera da tecnico terminò con la Fiorentina. Se vogliamo parlare di un rammarico posso dire che nella carriera di Zoff ci poteva stare l'incarico di dirigente accompagnatore della nazionale o della Federazione italiana gioco calcio che a mio avviso avrebbe meritato. 

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L'Intelligenza artificiale nella medicina: un futuro promettente per la salute dei cittadini

di PIERANTONIO LUTRELLI - Negli ultimi anni, l'intelligenza artificiale (AI) ha compiuto significativi progressi, portando innovazioni che stanno rivoluzionando il settore medico. Questa evoluzione scientifica  sta attivamente rimodellando il panorama della medicina moderna, portando a diagnosi più accurate, trattamenti personalizzati e una gestione più efficiente delle risorse sanitarie. Grazie a queste innovazioni, la salute dei cittadini è sempre più nelle mani di tecnologie avanzate che promettono un futuro migliore e più sano per tutti. L'adozione dell'AI nella medicina - a mio modesto parere - non è solo una tendenza, ma una necessità per garantire servizi sanitari di qualità e accessibili a tutti. Da strumenti di diagnosi precoci a piattaforme di telemedicina, l'AI si sta rivelando un alleato prezioso per migliorare la salute dei cittadini. Questa tecnologia non solo rende più efficienti le pratiche sanitarie, ma offre anche opportunità per personalizzare i trattamenti e migliorare la gestione delle malattie. Ma in che modo l'AI sta realmente influenzando la medicina al giorno d'oggi? Esploriamo insieme alcuni esempi concreti. Uno degli utilizzi più promettenti dell'AI in medicina è rappresentato dalla diagnosi precoce. Attraverso algoritmi avanzati, l'AI è in grado di analizzare enormi quantità di dati provenienti da immagini mediche, come radiografie e risonanze magnetiche. Ad esempio, la ricerca di Google Health ha dimostrato che l'AI può superare i radiologi umani nella capacità di individuare segni precoci di tumori al seno, contribuendo ad aumentare le possibilità di diagnosi tempestiva e di successo nel trattamento. La telemedicina ha guadagnato un'attenzione crescente, specialmente a seguito della pandemia. Gli assistenti virtuali alimentati da AI offrono supporto ai pazienti rispondendo a domande sanitarie e fornendo informazioni personalizzate. Utilizzando sistemi di triage basati su AI, i pazienti possono ricevere un'analisi preliminare dei loro sintomi, indirizzandoli verso le corrette consultazioni mediche e contribuendo a ridurre il carico sugli ospedali. Altro aspetto non di poco conto è la capacità di personalizzare i trattamenti cosa che sta ridefinendo la medicina moderna. Con l'analisi dei dati genetici e clinici, l'AI consente ai medici di creare piani di trattamento su misura per ogni paziente. In oncologia, ad esempio, i sistemi decisionali basati su AI possono raccomandare terapie target che aumentano le probabilità di successo, analizzando dati clinici, risposte precedenti ai trattamenti e informazioni biologiche. L' AI gioca un ruolo cruciale anche in ambito delle  malattie croniche le quali richiedono un monitoraggio costante. Tecnologie di monitoraggio remoto e applicazioni per smartphone aiutano i pazienti a gestire patologie come il diabete. Grazie a dispositivi indossabili, l'AI analizza i dati in tempo reale, fornendo feedback e avvisi importanti ai pazienti e ai professionisti sanitari, garantendo che le anomalie siano gestite tempestivamente. L'AI sta anche accelerando la ricerca e lo sviluppo di farmaci. Analizzando relazioni complesse tra molecole e loro effetti, gli algoritmi di AI possono identificare potenziali nuovi farmaci in tempi significativamente ridotti. Durante la pandemia di COVID-19, ad esempio, tali tecnologie hanno facilitato la scoperta di trattamenti e vaccini, dimostrando la loro efficienza nel contesto emergenziale. Oltre agli aspetti clinici, l'AI contribuisce a migliorare l'efficienza operativa nelle strutture sanitarie. Analizzando dati relativi al flusso dei pazienti, alla disponibilità di posti letto e alla gestione delle forniture, i sistemi di AI ottimizzano le operazioni quotidiane, permettendo una migliore gestione delle risorse e una riduzione delle attese. Infine, l'AI gioca a mio avviso anche un ruolo importante nell'educazione dei pazienti. Attraverso chatbot e piattaforme digitali, questa tecnologia offre informazioni e consigli personalizzati per promuovere una maggiore consapevolezza sulla salute, aiutando i cittadini a prendere decisioni più informate e responsabili.

 

 

 

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Il '94 rivisitato: un'analisi sincera della finale mondiale

di PIERANTONIO LUTRELLI- Nel 1994, l'Italia raggiunse la finale dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti, un traguardo che molti considerano un miracolo sportivo. La squadra, guidata da Roberto Baggio, noto come il "Divin Codino", si presentò alla sfida contro il Brasile carica di entusiasmo, ma la partita si rivelò un’odissea. Il Brasile vinse la finale ai calci di rigore, e fu proprio Baggio a sbagliare l'ultimo penalty, un momento che rimarrà per sempre impresso nei cuori degli italiani. Tuttavia, è importante contestualizzare questo evento: Baggio era reduce da un infortunio che comprometteva la sua prestazione. La sua assenza in forma completa - un eufemismo - si fece sentire, e la vittoria ci sfuggì di mano. In panchina c'era Arrigo Sacchi. Molti sostengono che con Fabio Capello al suo posto la coppa sarebbe potuta essere nostra. Capello, noto per la sua capacità di organizzare e motivare le squadre, avrebbe potuto apportare scelte strategiche diverse, inclusa la gestione degli infortuni e delle sostituzioni. Inoltre, il Brasile che ci affrontò non era il miglior Brasile di sempre. Pur avendo una grande tradizione, la squadra mostrò un gioco meno brillante e tecnico di quanto ci si aspettasse. Se l'Italia avesse potuto contare su una formazione al completo, con Baggio in forma e una panchina strategicamente robusta, il risultato finale potrebbe essere stato ben diverso. E' giusto ricordare che le responsabilità di una sconfitta in una finale non possono essere attribuite a un singolo errore o una singola persona. Ci furono scelte tattiche e decisioni che influenzarono il corso della partita, e la sconfitta ai rigori è solo un capitolo in una storia molto più complessa. Beppe Signori è stato uno dei migliori attaccanti italiani degli anni '90, noto per il suo fiuto per il gol e la sua abilità nei calci di rigore. Durante le stagioni 1992-93 e 1993-94, è stato capocannoniere della Serie A con la Lazio, contribuendo significativamente ai successi della squadra. Nonostante il suo talento, Signori non venne schierato neanche in uno dei 120 minuti della lunghissima finale del Mondiale '94. In quella partita cruciale contro il Brasile, l'assenza di un rigorista esperto come lui si fece sentire, soprattutto dopo l'errore di Roberto Baggio. Molti tifosi e commentatori ritengono che l'inserimento di Signori avrebbe potuto cambiare le sorti della finale, dando all'Italia una chance in più per vincere il titolo. Dissento pertanto da quanto Arrigo Sacchi ha recentemente affermato a Fanpage "che la paura di Silvio Berlusconi abbia influito sulla nostra sconfitta ai Mondiali del '94,perché Berlusconi faceva paura", ma questa lettura della situazione merita un'analisi più approfondita. A mio avviso le ragioni della nostra non vittoria sono da ricercare esclusivamente in motivazioni tecnico-calcistiche. In quel torneo, l'Italia ha affrontato diverse sfide, tra cui l'infortunio di Roberto Baggio, il nostro giocatore di punta, che si presentò in finale con un problema fisico che ne limitò le prestazioni. Inoltre, la gestione delle sostituzioni e delle scelte tattiche da parte dello staff tecnico giocarono un ruolo cruciale. La decisione di non schierare un rigorista esperto come Beppe Signori, capocannoniere della Serie A, è un esempio lampante di come le scelte in campo possano avere un impatto determinante sul risultato finale. Pertanto, è importante riconoscere che la sconfitta in quella finale non può essere attribuita a fattori esterni o politici, ma piuttosto a dinamiche interne alla squadra e alle scelte fatte durante il torneo. La storia del '94 deve essere vista attraverso la lente delle prestazioni sportive e delle decisioni tecniche, piuttosto che essere influenzata da narrazioni che mescolano sport e politica. 

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Restiamo umani

di PIERANTONIO LUTRELLI - Oggi si osserva un'importante tendenza verso l'umanoidizzazione. Robot sempre più simili agli esseri umani stanno diventando una realtà. La prospettiva di avere robot domestici o camerieri nei ristoranti suscita ammirazione, ma anche timore. Entro dieci anni, potremmo vederli in ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Questo transumanesimo può rappresentare un'opportunità per migliorare l'efficienza e la qualità della vita. Tuttavia, è fondamentale che l'intelligenza artificiale e i robot aiutino gli esseri umani senza sostituirli. Dobbiamo mantenere il nostro valore umano, la nostra empatia e le nostre capacità uniche. La chiave è trovare un equilibrio tra tecnologia e umanità. La tecnologia, quando utilizzata correttamente, può essere uno strumento potente per migliorare la nostra vita. Può semplificare compiti ripetitivi, consentire una migliore comunicazione e persino aprire nuove frontiere nella medicina e nell'istruzione. Tuttavia, il rischio di diventare troppo dipendenti da essa può portare alla perdita di alcune delle qualità che ci rendono umani. Uno degli aspetti più preziosi della nostra umanità è la capacità di provare empatia e di interagire con gli altri in modo significativo. I robot, per quanto avanzati, non possono replicare totalmente queste capacità. Le emozioni umane e la comprensione profonda sono il frutto di esperienze vissute, qualcosa che le macchine non possono acquisire. La creatività è un'altra area in cui gli esseri umani eccellono. Mentre le intelligenze artificiali possono analizzare dati e generare soluzioni basate su modelli esistenti, la vera innovazione spesso nasce dalla capacità di pensare fuori dagli schemi. Gli esseri umani hanno la capacità di sognare, immaginare e creare in modi che le macchine non possono eguagliare. Con l'avanzare della tecnologia, diventa cruciale affrontare le questioni etiche e di responsabilità. Chi è responsabile delle decisioni prese da un'intelligenza artificiale? Come possiamo garantire che le tecnologie siano utilizzate per il bene comune e non per scopi dannosi? Per mantenere un equilibrio tra tecnologia e umanità, è essenziale investire nell'educazione e nella formazione. Le nuove generazioni devono essere preparate a interagire con la tecnologia in modo consapevole e responsabile, sviluppando al contempo le proprie capacità uniche come la creatività, l'empatia e il pensiero critico. La collaborazione tra esseri umani e macchine può portare a risultati straordinari. Invece di temere la sostituzione, dovremmo vedere la tecnologia come un partner che può amplificare le nostre capacità. I robot possono aiutarci a svolgere compiti ripetitivi o pericolosi, permettendoci di concentrarci su attività che richiedono un tocco umano. Un equilibrio che vedo minacciato a vantaggio di chi pilota la sostituzione delle persone in carne ed ossa con i robot. Restiamo umani.

 

 

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Un viaggio commovente nel Ghetto Ebraico di Roma: l’incontro con le Pietre d’inciampo

di PIERANTONIO LUTRELLI - Durante una recente visita a Roma, ho avuto l'opportunità di esplorare il Ghetto Ebraico, un luogo carico di storia e memoria. Questo quartiere non è solo un simbolo della lunga presenza ebraica nella capitale italiana, ma anche un luogo di commemorazione per le terribili tragedie subite dalla comunità ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale. Passeggiando per le strade acciottolate del ghetto, sono rimasto profondamente colpito dalle pietre d’inciampo. Queste piccole targhe di ottone, inserite nel selciato davanti alle ultime abitazioni conosciute delle vittime del nazismo, sono state create dall'artista tedesco Gunter Demnig. Ogni pietra è un memoriale dedicato a una singola persona, con inciso il nome, la data di nascita e il destino tragico di coloro che furono deportati e uccisi nei campi di concentramento nazisti. In particolare, mi sono soffermato davanti alle pietre che commemorano: Lazzaro Moscato, nato nel 1900, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Giuseppe Moscato, nato nel 1926, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Bruno Anselmo Moscato, nato nel 1930, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944; Chiara Limentani, nata nel 1919, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944; Emilia Pavoncello, nata nel 1914, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944; Mario De Vito, nato nel 1912, arrestato il 16 ottobre 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 23 gennaio 1944 ed Emma De Vito, nata nel 1913, arrestata il 16 ottobre 1943, deportata ad Auschwitz, assassinata il 23 gennaio 1944. Trovarsi di fronte a queste pietre è stato un momento di profonda riflessione e commozione. Ognuna racconta una storia di vita spezzata, una famiglia distrutta, un futuro mai realizzato. Camminare su queste strade e leggere i nomi, spesso accompagnati dalle date di nascita di bambini, è un promemoria potente della brutalità della storia, ma anche della resilienza e della dignità delle vittime e dei sopravvissuti. Il Ghetto Ebraico di Roma, con le sue struggenti pietre d’inciampo, non è solo un luogo di memoria storica, ma anche un monito contro l'odio e l'intolleranza. È un invito a ricordare e a non dimenticare mai, affinché simili atrocità non si ripetano. Scrivere questo articolo è stato per me un modo per onorare quelle vite e condividere con gli altri l’importanza di mantenere viva la memoria. Invito tutti a visitare il Ghetto Ebraico di Roma e a dedicare un momento di riflessione davanti a queste pietre, per ricordare le vittime dell’Olocausto e sottolineare l’importanza della memoria storica.

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Totò Schillaci, quei 15 minuti che lo hanno consegnato alla storia

di PIERANTONIO LUTRELLI - La recente scomparsa di Totò Schillaci ha colpito il cuore di molti, non solo per la sua carriera calcistica, ma per il suo essere una persona normale, un uomo tra la gente, che ha affrontato la malattia in un ospedale pubblico di Palermo. La sua vita, spezzata da un tumore al colon, continua a suscitare emozione e nostalgia, dimostrando che, a volte, le storie più toccanti non appartengono solo ai grandi nomi, in quanto tali, ma a chi ha saputo conquistare il pubblico con autenticità e umanità. Totò Schillaci non era un fuoriclasse preconizzato. Era un ragazzo di Palermo, un esempio di come lo sport possa rappresentare la via di fuga da una vita di difficoltà e degrado. La sua ascesa nel mondo del calcio è simbolica delle speranze e dei sogni di una generazione intera. Nel 1990, quando il mondiale si svolse in Italia, lo sport e la nazionale rappresentavano un'opportunità di riscatto per molti giovani, e Schillaci si trovò a interpretare un ruolo da protagonista in un momento che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Ricordo con vividezza quei mondiali e l'aspettativa che circondava la nostra nazionale, composta da nomi illustri come Baggio, Vialli e Mancini. Ma fu un'azione inaspettata a cambiare il corso della storia. Dopo un deludente pareggio con l'Austria, il commissario tecnico Azeglio Vicini decise di scommettere su di lui, gettandolo nella mischia al 75º minuto. Tre minuti più tardi, al 78º, un cross perfetto di Gianluca Vialli dalla destra trovò Totò pronto a colpire di testa. Un gesto semplice, ma carico di significato: 1-0 e l'Italia era di nuovo in corsa. Quella rete non fu solo un gol, ma il simbolo di una vittoria più grande. Totò Schillaci divenne l'orgoglio di una nazione, un eroe per il Sud, per la Sicilia e per tutti coloro che si riconoscevano nella sua storia di riscatto. Con il suo sorriso e la sua spontaneità, riuscì a conquistare i cuori di milioni di italiani. Non era solo un calciatore, ma un rappresentante di una generazione che sognava e credeva che tutto fosse possibile. La sua performance nel torneo fu straordinaria: 6 reti e il titolo di capocannoniere. Ma, al di là dei numeri, ciò che rimane è il ricordo di quei 15 minuti che lo hanno consacrato. Schillaci ha dimostrato che a volte, in un momento di difficoltà, basta un attimo per cambiare il proprio destino, per diventare parte della storia. La sua capacità di empatizzare con il pubblico ha reso il suo nome sinonimo di passione e determinazione. Oggi, mentre piangiamo la sua scomparsa, ricordiamo che Totò non è solo un nome che passa nel silenzio della storia. La sua eredità vive in ogni tifoso, in ogni giovane che sogna di calcare il campo da calcio, in ogni persona che trova conforto e ispirazione nella sua storia. La poesia del calcio trionfa sul silenzio: Totò Schillaci è e rimarrà sempre vivo nei cuori di tutti noi.

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L'importanza dell'equità finanziaria nella politica elettorale

di PIERANTONIO LUTRELLI - La politica non sia appannaggio esclusivo dei ricchi, ma una vera e propria opportunità per tutti. Purtroppo nella contemporaneità, affrontare una carriera politica di alto livello richiede non solo un impegno significativo, ma anche l'accesso a risorse finanziarie considerevoli per condurre una campagna elettorale efficace. Non vi è dubbio che questa realtà genera una disparità di opportunità che impedisce a individui con grandi idee, ma limitate risorse, di candidarsi per posizioni di rilievo come la carica di sindaco in una grande città o di presidente di una regione. Questa tendenza, in cui la politica sembra essere riservata solo ai ricchi, solleva a mio avviso la necessità di una riforma che assicuri un finanziamento equo per tutti i candidati, consentendo così una partecipazione democratica più inclusiva. La campagna elettorale richiede una serie di attività e risorse, dalle tradizionali manifestazioni pubbliche ai santini elettorali, ai manifesti, fino alle spese per gli eventi e i collaboratori. Tutta una serie di “spese vive”. Orbene, tutto ciò genera un considerevole onere finanziario che non tutti possono sostenere. Questo scenario crea una barriera per l'accesso alla politica per coloro che non dispongono di risorse finanziarie adeguate, limitando la diversità di idee e prospettive che potrebbero arricchire il dibattito politico.
La mia proposta: una legge per l'equità finanziaria dei candidati

Per affrontare questa sfida, sarebbe opportuno che lo Stato introduca una legge che preveda l'assegnazione di fondi pari per tutti i candidati e rispettive liste collegate documentati in base a criteri definiti. Il quantum assegnato varierebbe a seconda del territorio in cui insiste il bacino elettorale e dal numero di elettori potenziali nella  circoscrizione di riferimento. Questo garantirebbe un livello di equità nella competizione politica, consentendo a candidati con idee innovative e progetti validi di presentarsi al pubblico su un piano di parità. Inoltre, una legge di questo tipo dovrebbe imporre sanzioni penali per coloro che superano i limiti di spesa stabiliti, in modo da prevenire abusi o distorsioni in favore di candidati con maggiori risorse finanziarie.

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Paulo Roberto Falcao: l'artefice del risveglio della Roma negli anni '80

di PIERANTONIO LUTRELLI - Gli anni '80 sono stati un periodo d'oro per il calcio italiano, e per me sono stati gli anni in cui ho iniziato a capire cosa significasse davvero questo sport. Il primo campionato che ho seguito con passione è stato quello del 1980-81, un'annata che ha segnato l'inizio di una nuova era per la Roma, guidata dall'allenatore svedese Nils Liedholm. La Roma, fino all'anno precedente, era sempre stata considerata una squadra di media classifica, ma in quell'anno qualcosa stava per cambiare. La Figc decise di aprire le frontiere, permettendo ai club di acquistare calciatori stranieri. Fu in questo contesto che la Roma si distinse, acquistando il brasiliano Paulo Roberto Falcao, un giocatore relativamente sconosciuto in Europa, ma che gli astuti osservatori della Roma - guidata dal grande presidente Dino Viola -avevano individuato in Brasile. Ed è proprio a lui che dedico questo post in occasione del suo settantesimo compleanno, avvenuto lo scorso 16 ottobre. Falcao aveva 27 anni, ma un'esperienza da veterano e una classe immensa. Nel centrocampo, conferiva sicurezza a tutta la squadra e in poco tempo divenne l'uomo di fiducia dell'allenatore. "È Falcao che dirige l'orchestra in campo. Io, al massimo, qualche volta gli scrivo la musica o arrangio lo spartito seguendo certe idee", diceva a quei tempi il compianto Liedholm, rendendo molto bene l'idea. Era un calciatore completo: ambidestro, forte di testa, dotato di grandi doti nel dribbling, ottimo controllo di palla. Sapeva proteggere la difesa facendo il difensore aggiunto ed allo stesso tempo attaccare. Aveva visione di gioco e capacità di finalizzare goal importanti. Indossava la maglia numero 5, un numero solitamente assegnato agli stopper, ma lui, che non era uno stopper, l'aveva scelto come suo distintivo personale. Dimostrando anche qui di essere molto avanti con i tempi. Ancora oggi, quando vedo un calciatore della Roma con la maglia numero 5, mi emoziona pensare che quella sia stata la maglia di Falcao. Il calciatore brasiliano di Porto Alegre fu così abile nel cambiare la mentalità della squadra e nel farla crescere, che la Roma iniziò subito a lottare per lo scudetto, e ci riuscì quasi. Fu solo per un goal annullato di Turone che la Juventus riuscì a sancire la sua vittoria, poiché nello scontro diretto alla penultima giornata di campionato la partita finì a zero a zero tra le polemiche che non si placano nonostante siano passati 43 anni. A fine stagione, la Juve terminò con 44 punti e la Roma con 42 punti. Falcao si era guadagnato l'appellativo di "Ottavo Re di Roma" e aveva infuso un grande entusiasmo in tutta la città. Per lo scudetto bisognerà attendere il 1983, ma la cosa che più mi ha colpito è che quando lui era in campo, tutti noi bambini che tifavamo per la squadra, ci sentivamo parte di qualcosa di più grande. Era un qualcosa che andava oltre il calcio. Aveva il sapore del riscatto. Vincere in maniera non facile, non scontata, ha un sapore molto più importante di quando si è abituati a vincere sempre e a vincere facilmente. Fu proprio da bambino seguendo la Roma che mi accorsi di non essere "vincentista". Paulo Roberto Falcao era il rappresentante di un mondo povero veniva da quel sud del mondo, ma aveva saputo riscattarsi e portare una squadra non abituata a vincere sul tetto d'Italia e d'Europa.

Il “goal” di Turone

10 maggio 1981, allo Stadio Comunale di Torino va in scena Juventus-Roma. Alla vigilia della gara, la Juve è in testa alla classifica con un punto di vantaggio sulla Roma. La sfida è intensa. L'arbitro Bergamo dimostra fermezza sembra immune da pressioni psicologiche, tanto che al 17º minuto della ripresa espelle Furino, mediano di origini siciliane, solito a entrare con eccessiva durezza. Pochi minuti dopo, l'appuntamento che passa alla storia: Conti-Pruzzo-Turone che di testa anticipa Falcao: gol della Roma, capovolgimento in vetta alla classifica. Bergamo convalida il gol e indica verso il centrocampo con il braccio destro, ma il suo sguardo incrocia la bandierina del guardalinee Sancini che annulla la rete. La Juve si aggiudicherà il campionato, con la Roma che si classificherà - come detto sopra- soltanto seconda a due punti di distanza.

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Giorgia Meloni: Un plauso alla determinazione e al coraggio della premier

di PIERANTONIO LUTRELLI - Giorgia Meloni, la prima donna nella storia della Repubblica Italiana a ricoprire la carica di premier, merita un plauso per la sua determinazione e il suo coraggio nel prendere una decisione difficile nella sua vita personale: dichiarare finita la relazione con il giornalista milanese Andrea Giambruno padre di sua figlia Ginevra di 7 anni. Nonostante le sue umili origini e le sfide che ha affrontato lungo il suo percorso, Meloni ha dimostrato di essere una figura di grande risolutezza. Come quando disse a Berlusconi “Non sono ricattabile”. In un mondo dove spesso le figure politiche si nascondono dietro le convenzioni e le apparenze, Meloni si distingue per la sua autenticità e la sua volontà di affrontare le difficoltà senza paura. La sua carriera politica è un esempio di come la determinazione e il decisionismo possono portare a risultati straordinari. Nonostante le limitazioni economiche e la mancanza di opportunità che caratterizzavano la sua famiglia di origine (ha iniziato a lavorare presto e non ha fatto l’università, pur essendo la prima della classe nei 5 anni di Liceo linguistico frequentati) Meloni è riuscita a diventare la leader del suo partito, Fratelli d'Italia, vincendo la competizione interna e portandolo a diventare il primo partito della coalizione di centrodestra diventata maggioranza di governo. Il suo ingresso a Palazzo Chigi è stato infatti il risultato di un percorso di successo basato su una visione politica forte e una volontà incrollabile. Nonostante le critiche e le sfide, Meloni ha dimostrato di non essere ricattabile, come ha ribadito in passato, e ha fatto della sua determinazione una caratteristica centrale della sua leadership. Ha preso una decisione coraggiosa nella sua vita privata, decidendo di lasciare il suo compagno. Questa scelta è stata accompagnata da infelici episodi fuori onda di cui Giambruno – giornalista Mediaset – si è reso protagonista durante le pause del suo programma che conduceva (già conduceva) su Rete4. Questi fuori onda sono stati registrati e riproposti dal programma anch’esso in onda sulle reti Mediaset, in questo caso Canale5, Striscia la notizia. Nonostante il dolore e la difficoltà che questa situazione comporta, Meloni ha deciso di affrontare pubblicamente la vicenda, mostrando la sua coerenza. Al di là delle opinioni politiche, è importante riconoscere la forza e il coraggio di Giorgia Meloni nel prendere una decisione difficile. Proprio per queste ragioni la sua determinazione nel perseguire i suoi obiettivi politici e il suo coraggio nel fronteggiare le sfide personali sono meritevoli di plauso.

 

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La politica non dovrebbe essere una professione

di PIERANTONIO LUTRELLI - Nel contesto politico attuale, emerge una critica che mette in discussione l'idea che l'impegno politico debba coincidere con la vita fisica di un individuo. Questo articolo mira a esplorare tale questione, sottolineando la necessità di un rinnovamento per promuovere il coinvolgimento di nuove figure nella sfera politica.

La distinzione tra vita politica e vita fisica:

Spesso si assiste a una mentalità secondo cui coloro che intraprendono un impegno politico debbano dedicare l'intera loro vita a tale scopo diventando dei veri e propri professionisti della politica. Tuttavia, è importante comprendere che l'impegno politico può e dovrebbe essere distinto dalla vita fisica. La politica richiede competenze, idee e passione, ma non necessariamente deve coincidere con l'intera esistenza di un individuo. Purtroppo pensando a questo concetto a tutti noi vengono in mente tanti nomi di persone che si ergono ad "indispensabili" nella costruzione del dibattito, nella vita dei partiti e di conseguenza nelle istituzioni. 

Il ruolo dei partiti politici:

I partiti politici hanno un'influenza significativa nella selezione dei candidati per le elezioni e nella formazione delle liste. Tuttavia, se all'interno di questi partiti si verificano dinamiche che promuovono solo le stesse persone, si rischia di limitare l'ingresso di nuove e innovative figure politiche. Se l'offerta è sempre variegata tra quei dirigenti che mutano forma e colore, ma che sono presenti da anni, anche gli elettori prima o poi si stancano o meglio dovrebbero. Perché questo andazzo può scoraggiare gli individui motivati dal partecipare attivamente alla politica, poiché non vedono un ambiente favorevole al loro coinvolgimento. Gli elettori sono inclini al cambiamento e lo hanno spesso dimostrato, bensì sono più refrattari nel procurarselo, per il discorso già fatto, visto che nell'organismo decisionale stanno grossomodo al di fuori. Eppure, prendendo ad esempio il Pd, qualcosa la vicenda ultima della vittoria di Elly Schlein alla segreteria nazionale, dovrebbe averla insegnata: si è registrata una difformità di consenso tra gli iscritti al partito e la gente all'esterno, elettori o potenziali tali. Già, perché restano solo potenziali alle elezioni vere, quando tra la busta "A", "B" o "C" è sempre la stessa solfa. 

La necessità di un rinnovamento politico:

Per garantire una politica dinamica e rappresentativa, è fondamentale pertanto promuovere il rinnovamento della classe dirigente. Ciò implica l'apertura a nuove idee, la valorizzazione di competenze diverse e l'incoraggiamento di persone motivate a entrare nel mondo della politica. Dobbiamo però superare l'idea che l'impegno politico debba coincidere con la vita fisica, in modo da attrarre e coinvolgere una gamma più ampia di talenti e prospettive. Quando vedo le stesse proposte da anni dico tra me e me: "se questa persona avesse avuto qualcosa da dare in termini di idee e contributi fattivi, ha già abbondantemente avuto la sua occasione per farlo". 

La mancanza di diversità e innovazione:

L'assenza di un rinnovamento politico può portare a una stagnazione delle idee e delle politiche. Quando le stesse persone occupano le posizioni di potere per un lungo periodo di tempo, si rischia di limitare il progresso e l'evoluzione. La politica ha bisogno di una costante infusione di nuove energie, prospettive e soluzioni innovative per affrontare le sfide che la società impone. Se oggi i ragazzi di vent'anni sono lontani dalla partecipazione politica, il motivo a mio avviso,  è dato anche anche dalla presenza troppo paludata dei protagonisti della scena politica attuale. Se i giovani ascoltano più i messaggi "politici" provenienti dai rapper, qualche interrogativo bisognerà pur porselo. 

 

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Gianni Rivera: dall'attacco alla Difesa

Un mito vivente del calcio italiano prestato alla politica 

 

di PIERANTONIO LUTRELLI - Gianni Rivera, il grande giocatore del Milan e della nazionale italiana, è una leggenda vivente del calcio italiano. Ha giocato nei rossoneri dal 1960 al 1979 anno in cui vinse lo scudetto della stella con l’allenatore Nils Liedholm. Nato ad Alessandria il 18 agosto 1943 ha da poco compiuto 80 anni. Cresciuto nell'oratorio di Alessandria, per questa ragione venne soprannominato "l'abatino" dal grande giornalista Gianni Brera. Rivera, vero "golden boy" del calcio anni 60-70 ha lasciato un'impronta indelebile nel calcio con la sua carriera di successi e il suo talento unico. Nel 1969, è stato il primo calciatore italiano ad aver conquistato il prestigioso Pallone d'Oro, riconoscimento riservato al miglior calciatore dell'anno. Con il Milan, Rivera ha vinto tutto: tre scudetti, quattro Coppe Italia, due Coppe dei Campioni, due Coppe delle Coppe ed un'Intercontinentale. Con la nazionale italiana divenne Campione d'Europa nel 1968 e secondo ai Mondiali del 1970, contro il Brasile di Pelé che ci battè 4-1. In quel Mondiale Rivera è stato il 12^ giocatore, (ruolo che solitamente si dà idealmente al pubblico): la formazione che scendeva in campo dall'inizio era composta da Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera, Domenghini, Mazzola, Boninsegna, De Sisti e Riva. Rivera sempre pronto a subentrare nel secondo tempo. Quello con l’allenatore Ferruccio Valcareggi fu un rapporto a tratti tormentato. Solitamente lo utilizzava in staffetta con l’interista Sandro Mazzola.Tra i due grandi campioni c’era un’accesa rivalità che dai derby di San Siro fini inevitabilmente anche in nazionale. Valcareggi, sgombrando il campo da equivoci, è proprio il caso di dirlo, da subito precisò che i due non avrebbero mai potuto giocare insieme. Dalla decisione di alternarli un tempo ciascuno nacque così la celebre staffetta. Ma in quella finale staffetta non fu. Accadde invece qualcosa di clamoroso: Rivera fu impiegato soltanto nei 6 minuti finali. Ne nacquero polemiche accesissime. L’Italia divisa in due. Tra mazzoliani e riveriani. Anche se quel mondiale verrà associato per sempre a Rivera autore del mitico goal del 4-3 contro nel corso della semifinale contro la Germania, marcando la rete al 43º minuto dei tempi supplementari, che garantì all'Italia il pass per la finale a Città del Messico. Ma la carriera di Rivera non si è limitata al campo da gioco. Dopo il ritiro, ha avuto una seconda vita nel mondo del calcio come dirigente del Milan, di cui è stato il vicepresidente. Ma la sua influenza si è estesa anche in politica, dove ha ricoperto l’incarico di deputato dal 1987 al 2001. Quattro legislature in 14 anni. Nell’ultima esperienza parlamentale ha ricoperto anche il ruolo sottosegretario alla Difesa nei governi di Prodi e D'Alema. Nel 2005 è subentrato a Mercedes Bresso al Parlamento europeo terminando la legislatura nel 2009. Tanti i partiti politici di Rivera, tutti nell’orbita di centro e centrosinistra. Non ha mai legato con Berlusconi, tanto che rispetto a Forza Italia Gianni è stato sempre dall’altra parte. Nonostante la sua personalità schiva, Rivera è un personaggio carismatico che ha lasciato un segno incommensurabile nel mondo del calcio. Era un fuoriclasse. La sua abilità nel dribbling in un gioco che sicuramente era più lento a quei tempi rispetto ad oggi, la grande tecnica e padronanza con la palla, la sua visione di gioco, la capacità di far goal, lo stile raffinato e la sua presenza longeva lo hanno reso un giocatore straordinario e amato da tutti i tifosi.

 

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Nel nome di Verona, si intrecciano le storie di Tommasi e Volpati. Ex calciatori, uno è sindaco, l'altro medico dentista

di PIERANTONIO LUTRELLI - Verona, una città ricca di storia e di storie che si intrecciano. In questa affascinante cornice, due nomi emergono come simboli di integrità e talento: Damiano Tommasi e Domenico Volpati. Nonostante le loro diverse sfere d'azione, e la diversa generazione, entrambi rappresentano l'eccellenza e l'impegno sia durante la vita da calciatori e sia dopo. Domenico Volpati, nato a Novara il 19 agosto 1951 ha giocato nell’Hellas Verona dal 1982 al 1988. Ha lasciato un segno indelebile nel calcio veronese, ovviamente e soprattutto grazie al fatto che è stato tra i vincitori dello scudetto nel 1985. Era il mitico Verona allenato da Osvaldo Bagnoli che predicava catenaccio e verticalizzazioni improvvise che davano vita a contropiedi micidiali. A vittorie inaspettate. In quell’anno tutti fecero i conti con il Verona. Erano gli anni del libero staccato dietro la difesa. Erano gli anni in cui il calcio aveva ancora il sapore nostrano della fatica e della normalità. Il calcio che sfornava fuoriclasse all’oratorio e nei campi sterrati della provincia italiana. In questo contesto il nostro Volpati ha mostrato una dedizione inesauribile verso il calcio. Nonostante fosse già un veterano a 34 anni, ha vinto lo scudetto con la squadra scaligera, dimostrando che l'età è solo un numero quando si è guidati dalla passione e dalla determinazione. La sua presenza in campo era sinonimo di esperienza e saggezza, un faro per i giovani talenti che lo circondavano. E in quegli anni, a 34 anni si era dei “vecchietti” a fine carriera. Volpati aveva forza ed energia. Era un mediano difensivo senza pretese apparentemente, ma invece si fece valere. A differenza di molti ex calciatori non ha avuto uno sbocco nel mondo del calcio. Ha invece deciso di laurearsi in medicina, e poi specializzandosi in odontoiatria, si è trasferito a Termeno in provincia di Bolzano dove per 28 anni ha svolto l'attività di dentista fino al 2019. Ma un medico lo è per tutta la vita. Così nel 2021, vista la necessità di medici vaccinatori per la pandemia in atto, ha ripreso volontariamente il servizio presso il centro vaccinale sul Lago di Tesero. Damiano Tommasi, invece, ha lasciato il suo segno sia nel mondo del calcio che nella sfera politica. Nato a Negrar di Valpolicella il 17 maggio 1974 a 12 Km da Verona, dopo una brillante carriera da calciatore, coronata dal titolo di campione d'Italia con la Roma nel 2001, ha deciso di intraprendere una nuova sfida: la politica. Il suo impegno e la sua dedizione lo hanno portato nel 2022 a sconfiggere con il 53% dei voti al ballottaggio, il sindaco uscente Federico Sboarina, avversario di centrodestra nelle elezioni comunali di Verona, diventando a sua volta il sindaco della città. La sua integrità e la sua passione per il servizio pubblico sono un esempio per tutti coloro che credono nel potere del cambiamento e dell'onestà. In precedenza, aveva svolto il ruolo di presidente nazionale dell’Associazione Italiana calciatori, carica detenuta per molti anni dal mitico Sergio Campana. Tommasi nel campionato 2000-2001, quello dello scudetto con Fabio Capello, fece una stagione strepitosa. Fu il migliore della Roma per rendimento, correva, rubava palloni, costruiva, faceva goal, assist, spogliatoio, gruppo e tutto questo con la serietà che in un ragazzo di 27 anni sorprendeva. Un ragazzo pulito. Una persona che al solo guardarlo in faccia ti ispirava fiducia. Di quelli a cui lasceresti le chiavi di casa senza pensarci due volte appena lo conosci. Di quelli che pur potendosi permettere tutto ha mantenuto i piedi per terra. E oggi alla soglia dei cinquant’anni è un marito e un padre premuroso con i suoi sei figli. Soprattutto un sindaco attento. Nella terra di Zaia, in cui la Liga è fortissima, solo una persona brava e famosa come il Damiano romanista poteva far vincere il centrosinistra alle comunali. Bella storia. Se da sindaco mostra la stessa correttezza e serietà che ha adottato in campo, i cittadini possono dormire sonni tranquilli. Volpati e Tommasi, Domenico e Damiano, due ragazzi della provincia italiana che nella vita hanno dimostrato che pur amando il calcio visceralmente, si possa andare oltre e servire il prossimo con onestà e versatilità anche in altri ambiti. In entrambi questi uomini, l'impegno, la dedizione, l'integrità e il rispetto sono cardini fondamentali della loro esistenza. Sia Volpati che Tommasi hanno dimostrato di essere non solo grandi talenti nelle rispettive aree di competenza, ma anche persone di grande umanità e generosità. Entrambi hanno messo il loro talento e la loro passione al servizio della comunità. Tante similitudini fra i due: Volpati non è di Verona ma ha vinto lo scudetto a Verona, Tommasi che è di Verona ha vinto lo scudetto a Roma, ma a Verona è tornato a fare il sindaco. Due bravi ragazzi talentuosi e di fatica, seri e rispettosi del prossimo, persone perbene e vere perle della storia del nostro calcio. In una sola parola: un esempio.

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Una prospettiva critica sulla spesa per armamenti e la necessità di garantire cure gratuite, efficaci e tempestive

L’iniziativa rientra nel primo programma di riarmo scaturito dal conflitto in Ucraina e, allo stesso tempo, recependo la richiesta della Nato di aumentare le spese militari per la difesa. L’ammontare totale del valore dell’acquisto è stimato in 6 miliardi di euro

di PIERANTONIO LUTRELLI - In un periodo in cui la spesa pubblica e l'allocazione delle risorse sono argomenti di grande importanza, emerge un dibattito sempre più acceso sulla priorità che il governo dovrebbe attribuire tra difesa nazionale e tutela della salute dei cittadini, specialmente quelli meno abbienti. È indubbio che la difesa del Paese sia un obbligo primario per un governo, ma dovrebbe forse essere ancor più prioritario garantire cure gratuite, efficaci e tempestive per i propri cittadini. La notizia che il governo spenderà sei miliardi di euro (nel 2024 saranno inizialmente stanziati 4 miliardi) per l'acquisto di carri armati 'tank' tedeschi denominati “Leopard 2” ha sollevato diverse domande. Alcuni si chiedono se sia giusto destinare una somma così consistente per armamenti, mentre le risorse per la sanità sono spesso insufficienti. È un interrogativo che merita una riflessione approfondita. La salute dei cittadini è un bene fondamentale per il benessere di una nazione. Non è raro vedere persone che rinunciano alle cure odontoiatriche o che devono attendere per lunghi periodi prima di ottenere visite mediche necessarie. Queste situazioni possono aggravare lo stato di salute di chi già si trova in difficoltà e creare ulteriori disuguaglianze sociali. In un contesto in cui le risorse nazionali sono limitate, è fondamentale che il governo si dia delle priorità chiare. La difesa nazionale è certamente un aspetto cruciale, ma dovrebbe essere bilanciata con un impegno altrettanto forte nella tutela della salute dei cittadini. Un sistema sanitario efficiente ed equo è essenziale per garantire una società sana e prospera. Inoltre, è importante considerare gli investimenti a lungo termine. Mentre gli armamenti possono offrire un senso di sicurezza immediata, gli investimenti nella salute possono portare a un miglioramento generale del benessere della popolazione e della sua produttività. Infatti, a mio avviso, cure gratuite, efficaci e tempestive possono prevenire complicazioni mediche, ridurre i costi a lungo termine e consentire alle persone di vivere vite più sane e produttive.

 

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Sondaggio sulle intenzioni di voto in Italia: quando le cose non sono come sembrano

di PIERANTONIO LUTRELLI - Un recente sondaggio condotto da Euromedia Research per Porta a Porta del 3 ottobre scorso, rilanciato da La7, ha rivelato i dati sulle intenzioni di voto in Italia.  Vediamo nel dettaglio cosa – a parer mio - indica il grafico con i risultati delle intenzioni di voto che sono i seguenti:

 

- FDI: 28,0%

- PD: 19,4%

- M5S: 17,0%

- LEGA: 9,6%

- FI: 6,9%

- AZIONE: 4,1%

- ITALIA VIVA: 3,3%

- VERDI-SINISTRA: 3,0%

- +EUROPA: 2,5%

- PER L'ITALIA CON PARAGONE: 2,4%

 

Non vi è dubbio che gli ultimi anni il leaderismo esasperato all’interno dei partiti ha portato alla personificazione degli stessi, legando inevitabilmente il proprio destino a colui o colei che ne guida le sorti. Giocoforza sono i segretari che nel bene o nel male influiscono sul gradimento e sui sondaggi. Volendo fare una panoramica dello stato di salute dei partiti, tutta personale - sondaggio a parte – non posso prescindere dal fare una premessa: nel sondaggio in questione il 40% del campione individuato ha preferito non esprimersi. Una buona minoranza qualificata degli italiani non sa per chi votare, o peggio, se andare a votare. Avere il l’X% tra il 60% degli italiani è a mio avviso poca cosa. Soprattutto quando si parla di una sola cifra. Eppure, la retorica autoreferenziale ci fa ascoltare frasi come “gli elettori hanno scelto il cambiamento” oppure “gli elettori ci hanno premiato”. Quasi sempre parliamo della minoranza degli elettori totali. Di vittorie nette a furor di popolo ne ho viste solo due negli ultimi anni: quella di Zaia in Veneto e di De Luca in Campania. Due governatori con maggioranze solide tali da assorbire anche sacche di astensionismo. Iniziando dal Movimento 5 stelle, saldamente al terzo posto nel Paese, seppur ben lontano dal 32% delle Politiche del 2018, va detto che Conte che da tempo corre sulla corsia di sorpasso in attesa di soffiare al Pd di Elly Schlein il secondo posto nell’arco costituzionale dietro Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che è ancorata al primo posto, e – sempre stando al sondaggio – è a capo della coalizione di centrodestra con il 44,5% del 60% dei voti sul campione intervistato. Ovvio che i sondaggi sono indicativi e lungi da me non voler attribuire agli stessi un valore scientifico, però andrei piano nelle valutazioni assolute. Tornando a Conte e Schlein, su molti temi non vedo differenze anche se, a ragion del vero all’interno del Pd molti esponenti non radicali accettano la linea senza condividerla. Perché si sa che il segretario fa le liste. Sempre il segretario designa ministri e sottosegretari nei governi a larghe intese, che a volte piombano quasi apparentemente come un fulmine a ciel sereno sulla legislatura. La sensazione è che Fratelli d’Italia cresca erodendo classe dirigente a vari livelli ad altri partiti di centrodestra. La segretaria che fa la premier, Giorgia Meloni, è identificata come unico volto del partito. Inimmaginabile un’altra performance uguale senza di lei nel futuro. Forza Italia senza Berlusconi ne continua il ricordo con gigantografie, ologrammi e tanto di cognome nel simbolo. A Paestum abbiamo assistito a selfie di militanti con la sua gigantografia mentre si è registrata una scarsa richiesta di selfie con i dirigenti presenti. Della serie Silvio è ancora una spanna avanti a tutti. Italia viva è praticamente solo Matteo Renzi. Il piccolo partito di centro sopravvive grazie a lui. È proprio l’ex premier toscano ad averlo inventato a sua immagine. Eppure, televisivamente fa più audience di chi prende più voti di lui. Azione invece, a mio avviso senza Calenda potrebbe addirittura migliorare. Vedrei bene alla guida Mara Carfagna. È mediatica al punto giusto ed è capace di dialogare con il Sud e con le donne. La Lega ha una leadership con Salvini più debole che mai. Non vorrei essere nei suoi panni al solo pensiero che alle prossime Europee di giugno 2024 nel tabellone comparativo con il 2019 avrà un bel segno meno davanti rispetto al 34% ottenuto quattro anni e mezzo fa.

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Il calcio come veicolo di socializzazione, riscatto e unione nazionale: l'arte cinematografica di Paolo Sorrentino e l'esultanza di Sandro Pertini

di PIERANTONIO LUTRELLI - Il calcio rappresenta un grande veicolo di socializzazione, riscatto e unione nazionale. Va oltre il rettangolo di gioco. Molto oltre. Finisce ovunque. Anche al cinema di qualità. Basti pensare a Paolo Sorrentino, regista napoletano e grande tifoso di Maradona, che ha dedicato il suo film del 2021 "È stata la mano di Dio" al leggendario calciatore argentino. Questa pellicola, presentata alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, racconta la storia di una giovane promessa del calcio napoletano e celebra l'importanza del calcio nella vita delle persone. Il calcio è immenso. Basta ricordare che un momento significativo che ha dimostrato il potere di questo sport di unire il popolo italiano è stata la vittoria della Nazionale italiana nel Mondiale del 1982. Durante la finale al Santiago Bernabeu di Madrid, il Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, un ex partigiano e uomo di sinistra, ha esultato con entusiasmo per la vittoria dell'Italia per 3-1 contro la Germania. Quel gesto ha dimostrato come il calcio possa superare le differenze ideologiche e creare un senso di unità nazionale. Il calcio non è solo una distrazione, ma un mezzo di socializzazione e riscatto. Durante le grandi competizioni internazionali, come i Mondiali, le persone di diverse estrazioni sociali e politiche si ritrovano unite nello stesso entusiasmo e nella stessa passione per la propria nazionale. Questo sport è in grado di superare le divisioni e creare un senso di appartenenza e solidarietà. Tornando a Sorrentino, con la sua abilità cinematografica, ha catturato l'essenza di questa passione calcistica e ha trasferito emozioni profonde attraverso il suo film. Ha dimostrato come il calcio possa essere un veicolo di riscatto e unione, celebrando l'eredità di Maradona e il suo impatto sulla società e sul calcio italiano. Non vi è dubbio alcuno che il calcio rappresenta molto più di uno sport. Il film di Paolo Sorrentino "È stata la mano di Dio" e l'esultanza di Sandro Pertini nel Mondiale del 1982 sono esempi di come il calcio possa superare le barriere sociali e politiche, unendo le persone in momenti di gioia e coesione nazionale.

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Il potere del segretario nazionale: il sistema elettorale italiano e la mancanza di autonomia alla base dei partiti

di Pierantonio Lutrelli - Negli ultimi anni, è emerso un fenomeno preoccupante all'interno dei partiti politici italiani: la tendenza a evitare di scontentare il segretario nazionale. Questo accade perché coloro che si mettono contro il leader rischiano di essere esclusi dalle future candidature. Questo sistema ha radici profonde nel contesto elettorale italiano, caratterizzato da liste bloccate senza preferenze e collegi uninominali, dove il potere decisionale si concentra principalmente nelle mani dei leader e della capitale, Roma. Dall'entrata in vigore del sistema elettorale attuale nel 2006, (da Porcellum a Rosatellum cambia solo la quota marginale dei collegi) la voce dei cittadini all'interno dei partiti politici è stata notevolmente ridimensionata. La base ha poco o niente potere decisionale sulle scelte e sulle candidature, mentre i leader nazionali e i vertici dei partiti hanno il controllo quasi totale sul processo decisionale. Questa situazione solleva una serie di interrogativi sul funzionamento della democrazia interna ai partiti. Sebbene sia importante che i partiti siano organizzati e guidati da una leadership forte, è altrettanto fondamentale garantire la partecipazione attiva dei membri e la possibilità di influenzare le decisioni. Tuttavia, nel sistema attuale, la voce dei membri di base viene spesso soffocata da una cultura di conformità e obbedienza nei confronti del segretario nazionale. La ragione principale per cui questo sistema è ben accetto da tutti è la mancanza di incentivi per cambiare. I vertici dei partiti, inclusi i segretari nazionali, beneficiano enormemente da un sistema che consolida il loro potere e limita la concorrenza interna. Il mantenimento dello status quo garantisce loro un controllo stabile e una maggiore sicurezza nelle future elezioni. Tuttavia, questa situazione limita la rappresentatività dei partiti e sminuisce il ruolo dei membri di base. L'assenza di meccanismi di selezione democratica per le candidature può portare a una mancanza di diversità e ad una scarsa rappresentanza dei vari interessi all'interno dei partiti. Ciò può indebolire la democrazia interna e minare la fiducia dei cittadini nella politica. Per superare questa situazione, sarebbe necessario un cambiamento radicale nel sistema elettorale italiano, con l'introduzione di meccanismi di selezione delle candidature più inclusivi e trasparenti. Inoltre, sarebbe importante promuovere una cultura politica che valorizzi la partecipazione attiva dei membri di base e incoraggi la diversità di opinioni e la competizione interna. Il sistema elettorale italiano, con le sue liste bloccate senza preferenze e i collegi uninominali, contribuisce a creare un ambiente in cui i membri dei partiti tendono a evitare di scontentare il segretario nazionale per non compromettere le proprie opportunità di candidatura. Ciò limita la democrazia interna e la rappresentatività dei partiti, e richiede un dibattito approfondito sulla necessità di riforme per garantire una maggiore partecipazione e un sistema politico più inclusivo. 

 

 

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Perché Neymar per me è il Numero 1

di PIERANTONIO LUTRELLI - Un calciatore deve infiammare il pubblico. Neymar ne è capace. Tutti noi quando abbiamo iniziato a giocare a calcio abbiamo sempre ammirato i più bravi tecnicamente. Quelli capaci di dare del tu alla palla. Chiaro che il calcio è un gioco collettivo. I tanti interessi economici che vi ruotano intorno impediscono a volte di prediligere aspetti romantici. A me piace immaginare un calcio che forse non esiste più. Non importa. Contano i risultati di bilancio. Le bacheche. Le vittorie. Certo. Al pubblico che corre allo stadio o si abbona alle payTv nessuno ci pensa. I tifosi esultano e festeggiano solo se si vince. Legittimo. Sarà che sono tifoso di una squadra, la Roma, che vince poco - pochissimo direi - ma da sempre ho orientato la mia visione del calcio sullo spettacolo che questi è capace di offrire. A quello che può dare anche senza un campionato o una coppa vinta. Mi annoio quando una gara annoia. Non ci posso far nulla. Mi sono divertito di più con la Roma di Totti e Cassano senza trofei che con l'Italia vincitrice del mondiale del 2006. Neymar, per tornare a lui, rappresenta questa filosofia: il fuoriclasse che rende felici le persone che hanno pagato il biglietto. Devo essere sincero ne ho visti tanti di fenomeni, ce ne sarebbero e un giorno ne parliamo, ma come questo calciatore pochi. Eppure Maradona l'ho visto giocare, Ronaldo il fenomeno anche. Messi in tv. Ronaldinho mi piaceva molto non c'è dubbio. Mi piaceva Zidane, anche più di Totti. Ecco l'ho detto. Il Brescia di Roberto Baggio era fantastico. Non ha vinto niente, ma aveva una magia. Un perché. Il Brasile sempre. Tranne quello del '94 eppure ha vinto la Coppa del Mondo. Romario era accettabile, Bebeto era improponibile. Altra storia il Brasile 1982. L'Italia fantastica li ha battuti 3-2. Un sogno. Quel Brasile aveva una flotta di centrocampisti assortiti da paura: Socrates, Falcao, Cerezo, Junior, Zico ed Eder. Fate voi che squadrone. Vi invito a guardare Neymar nei particolari. E' furbo. Non subisce facilmente fallo. Gioca la palla a terra e salta 6-7 avversari come birilli. Forte fisicamente al punto da non temere falciate alcune. Uno spettacolo.

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Carlo Ancelotti, un allenatore leggendario

Carlo Ancelotti, l'attuale allenatore del Real Madrid, è una figura iconica nel mondo del calcio. La sua lunga e vincente carriera, che lo ha visto guidare i più prestigiosi club europei, dimostra che l'età anagrafica non è un fattore determinante per essere un allenatore moderno e di successo. Ancelotti, nato il 10 giugno, (come me!) del 1959 continua a dimostrare la sua passione e dedizione in una nuova avvincente stagione alla guida del Real Madrid. Nonostante non abbia più “fame” di vittorie continua a mietere successi.  Ancelotti ha dimostrato di essere un allenatore moderno e all'avanguardia, capace di adattarsi e evolversi nel corso degli anni. Ha imparato a conoscere il calcio in diverse realtà geografiche, arricchendo il suo bagaglio tattico e strategico. Ancelotti ha acquisito una mentalità moderna grazie all'influenza di grandi allenatori come Nils Liedholm, Arrigo Sacchi e Fabio Capello che lo hanno guidato nel suo percorso. Prima di intraprendere la carriera di allenatore, Ancelotti ha brillato anche come giocatore. Durante il suo periodo alla Roma, è stato un centrocampista generoso ed infaticabile. Ha fatto parte di uno dei reparti di centrocampo più forti di sempre, insieme a Conti, Falcao e Cerezo. Insieme, hanno portato la Roma in finale di Coppa dei Campioni, lasciando un segno indelebile nella storia del club. Ancelotti ha vissuto un momento cruciale nella sua carriera quando, all'età di 22 anni, ha subìto un grave infortunio al ginocchio durante una partita contro la Fiorentina nel 1981. Casagrande lo sfiora, ma nulla di che. Carletto cade a terra e si tiene il ginocchio con due mani. Il dolore e la disperazione si sono fatti sentire, ad un certo punto si era sentito “crack” e le urla “il ginocchio”, “mi è uscito il ginocchio” con Falcao il primo a soccorrerlo. La diagnosi confermò la gravità dell’episodio percepita da tutti: rottura dei legamenti crociati. Ancelotti ha dimostrato la sua resilienza e determinazione nel superare l'ostacolo, ha trovato la forza di tornare in campo e continuare a giocare ai massimi livelli. Ha dimostrato il suo valore anche come allenatore, guadagnando successo in tutte le città europee in cui ha lavorato. Dal Milan al Chelsea, dal Paris Saint-Germain al Bayern Monaco e ora al Real Madrid, ha lasciato il segno in ogni club. Ha vinto numerosi trofei e ha creato squadre di grande valore, dimostrando la sua abilità nel gestire giocatori di talento e nel creare un ambiente di successo.

 

Pierantonio Lutrelli 

 

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Calcio e politica: un connubio di passioni senza confini

Cari lettori,

è con grande entusiasmo che vi do il benvenuto al mio blog, "Calcio e Politica". In questo spazio virtuale, voglio condividere con voi una finestra aperta su due mondi che mi appassionano profondamente. Tuttavia, non troverete qui semplici cronache o commenti di partito, ma una narrazione che mira a trasmettere sensazioni, curiosità e spunti di riflessione senza alcuna pretesa di schieramento politico. Da sempre un appassionato di calcio, ho vissuto emozioni indimenticabili grazie a questo sport. Le storie che si intrecciano sul campo, le gesta degli eroi, anche quelli di provincia poco reclamizzati e non per questo meno affascinanti, le rivalità accese e le vittorie straordinarie: tutto ciò rappresenta per me un tesoro di aneddoti e passioni da condividere con chi come me è animato dalla stessa passione calcistica. Come premesso, però, il mio interesse non si ferma al calcio. La politica, con la sua complessità e le sue implicazioni, mi ha sempre affascinato. Desidero creare uno spazio in cui tutti gli amanti del calcio e della politica possano sentirsi a loro agio, indipendentemente dalle loro preferenze politiche o squadre del cuore. Questo blog sarà un luogo in cui il passato avrà un ruolo di rilievo, poiché le radici e la storia sono fondamentali per comprendere il presente. Tuttavia, vi invito a seguirmi nel presente e nel futuro, in quanto il mondo del calcio e della politica è in costante evoluzione. Sarà un viaggio emozionante, ricco di argomenti interessanti, punti di vista diversi e spunti di riflessione che andranno al di là dei confini del campo da calcio o delle aule politiche. Mi auguro che voi, buongustai della politica e del calcio, possiate trovare in questo spazio una fonte di ispirazione, un motivo per riflettere e un luogo di discussione aperta, senza pregiudizi o divisioni. Siete tutti invitati a partecipare attivamente, condividendo le vostre opinioni ed esperienze. Vi aspetto con impazienza per il primo capitolo di questa avventura, in cui esploreremo insieme il connubio affascinante tra calcio e politica. Restate sintonizzati!

Pierantonio

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Lutrelli Inchiostro e Realtà è un blog unico che si propone di esplorare la realtà attraverso storie e riflessioni originali e stimolanti. Rivolto a lettori appassionati di calcio, politica, cultura e attualità, offre articoli che spaziano da approfondimenti su temi sociali a recensioni di libri e interviste con esperti.

Il mio intento è quello di dare voce a temi spesso trascurati, promuovendo un dialogo costruttivo e una comprensione più profonda della società in cui viviamo. Ogni post è un invito a guardare oltre la superficie, a interrogarsi e a scoprire nuove prospettive.

Incoraggio i lettori a interagire, condividere le proprie opinioni e suggerire argomenti di interesse. Insieme, possiamo costruire una comunità di pensiero critico e riflessione.